Sinossi
Fúsi è un uomo di quarant’anni, che non riesce a spiccare il volo verso la maturità. Vive con la madre, aggrappato a un mondo che anagraficamente non gli appartiene. Tra il lavoro in aeroporto, il bullismo dei colleghi e la passione per soldatini e carri armati in miniatura, Fúsi trascorre le sue giornate sempre allo stesso modo. Una routine che si ripete fino all’incontro con una bambina di 8 anni e una donna, Sjöfn, che soffre di depressione. Il quarantenne apatico, senza nessuna esperienza amorosa e con un risicato numero di amici – in realtà solo uno – si ritrova all’improvviso a dovere fare delle scelte, prendere delle decisioni che gli cambieranno la vita e il suo modo di vedere il mondo.
Recensione
Scritto e diretto da Dagur Kári, Virgin Mountain proietta lo spettatore dentro la vita di un uomo intorpidito dall’immaturità. Le sue priorità sono scandite da passatempi che lo relegano in una prigione esistenziale dalla quale sembra non esserci fuga. Un circolo vizioso fomentato dalle certezze quotidiane: la colazione, la madre che gli prepara il pranzo, lava e stira i suoi vestiti e i modellini di war game.
La sapiente regia di Kári contribuisce ad accrescere un clima di solitudine e isolamento. La scintilla del cambiamento è però dietro l’angolo. Il confronto con l’altro sesso dispone il protagonista verso qualcosa di sconosciuto, verso l’ignoto dal quale è sempre fuggito. Una bambina e soprattutto una donna depressa aprono nuovi scenari, che minano le certezze e rendono Fúsi pronto al grande salto nel buio. La depressione della donna di cui s’innamora è l’interruttore che accende una nuova luce: quella delle responsabilità. Calandosi nei panni di colui che aiuta l’amica depressa a uscirne fuori, in realtà è lui – implicitamente – ad essere aiutato.
In questo, l’attore Gunnar Jònsson è abile a trasmettere allo spettatore l’inquietudine e la metamorfosi figlia del cambiamento. Le sue espressioni, i suoi silenzi e le sue angosce, all’improvviso vengono spazzate dal vento della consapevolezza dei propri mezzi. Una pellicola agrodolce, in cui si alternano scene drammatiche a momenti di delicata tenerezza, dove a uscire fuori è il grande cuore di un uomo in sovrappeso, che, nonostante la stazza e la sindrome di Peter Pan, riesce a sconfiggere i suoi demoni è spiccare il volo. La vigile e attenta sceneggiatura, una fotografia dai toni chiaroscuri e la maestria del protagonista supportano una regia ispirata, che esplora i meandri dell’anima umana per svegliarla dal torpore nella quale è relegata.
Dario Cataldo