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35 Bergamo Film Meeting: The Good Heart di Dagur Kári

In The Good Heart trova conferma, oltre alla capacità dell’islandese Dagur Kári di tratteggiare personaggi sensibili e atmosfere in disfacimento, la particolare ossessione del regista per uno humour nero, dalle venature piuttosto acide, di cui molto spesso è qualche giovane personaggio maschile a farne direttamente le spese. A Bergamo lo abbiamo potuto constatare anche in un promettentissimo mediometraggio realizzato nel 2000, Lost Weekend, ugualmente incentrato su particolari forme di disagio giovanile, ambienti soffocanti (in questo caso un decadente, poco frequentato alberghetto), amori di breve durata e tragedie in agguato.

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Abbiamo già avuto modo di elogiare la sezione Europe, now! per come vi è stato omaggiato il cineasta greco Thanos Anastopoulos. Ma in questo stesso spazio, tra i più interessanti del 35° Bergamo Film Meeting, hanno trovato collocazione anche le opere di un’altra vecchia conoscenza, l’islandese Dagur Kári. Se abbiamo definito una “vecchia conoscenza” il film-maker calato dalle terre vichinghe, è principalmente per via di Nói albínói: tale lungometraggio, datato 2003, aveva rappresentato anche da noi un piccolo caso cinematografico. Ambientato in uno sperduto villaggio della costa nord-occidentale islandese, Nói albínói si faceva carico di un’originale forma di spleen nordico, la stessa che ravvisiamo a volte nei videoclip dei connazionali Sigur Rós, mostrandoci sotto una fioca luce settentrionale la quotidianità disillusa e i sogni ancora vividi del giovane protagonista, un autentico outsider. Ecco, anche negli altri lavori dell’islandese pare esserci un’attenzione quasi maniacale per certe figure maschili, per la loro spesso traumatica (post)adolescenza. E non fa certo eccezione il suo sbarco in America, avvenuto nel 2009 con una co-produzione internazionale di ottima fattura: The Good Heart.

Distribuito anche in Italia col titolo The Good Heart – Carissimi nemici, il film non aveva avuto qui, pur con la presenza nel cast dei già noti nonché bravissimi Paul Dano e Brian Cox, la stessa accoglienza di un cult movie riconosciuto come Nói albínói. Eppure a rivederlo oggi si configura quale piccola perla ritagliata attorno a stati d’animo malinconici e atmosfere sospese.
Forte della sua classica ambientazione newyorchese, The Good Heart prende slancio a partire dall’incontro/scontro dei due protagonisti, uno giovane e l’altro parecchio anziano, accomunati da un Fato apparentemente avverso ma di indole diversissima tra loro. Il giovane emarginato e di animo buono (figura ricorrente, come dicevamo, nel cinema di Dagur Kári) è quel Lucas interpretato con grande naturalezza da Paul Dano (all’epoca in forte ascesa, avendo interpretato pellicole come Fast Food Nation, Little Miss Sunshine e Il petroliere), perfettamente a suo agio nei panni dell’incompreso la cui parabola discendente è destinata ad arrestarsi, almeno temporaneamente, grazie all’interessamento di un vecchio dall’aria burbera, Jacque (un Brian Cox da noi apprezzato in tantissimi film, dai più datati Manhunter – Frammenti di un omicidio e L’agenda nascosta al recentissimo Autopsy).
Il regista, Dagur Kári, è bravissimo dal canto suo a inserire i personaggi in una cornice di solitudini maschili e malinconie affogate nell’alcol, che, data l’ambientazione offerta da un vecchio e scalcinato locale, può ricordare per certi versi quel mood peculiare sapientemente ricreato da Steve Buscemi in Mosche da bar (1996). Quasi a replicare i toni di una parabola dickensiana trasposta in anni a noi più vicini, la buona volontà del giovane sembrerebbe far breccia piano piano nello spirito inaridito del proprietario del bar, solitario e diffidente. Ma un destino beffardo è in agguato. E anche l’ingresso in quell’ambiente orgogliosamente maschile di una graziosa giovane donna farà la sua parte…

In The Good Heart trova pertanto conferma, oltre alla capacità del cineasta islandese di tratteggiare personaggi sensibili e atmosfere in disfacimento, la particolare ossessione del regista per uno humour nero, dalle venature piuttosto acide, di cui molto spesso è qualche giovane personaggio maschile a farne direttamente le spese. Come abbiamo poi potuto constatare a Bergamo anche in un promettentissimo mediometraggio realizzato nel 2000, Lost Weekend, ugualmente incentrato su particolari forme di disagio giovanile, ambienti soffocanti (in questo caso un decadente, poco frequentato alberghetto), amori di breve durata e tragedie in agguato.

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