Ripensando al concorso meritatamente vinto da Toril del francese Laurent Teyssier, l’altro lungometraggio del 35° Bergamo Film Meeting in cui avevamo ravvisato potenzialità interessanti è Alba di Ana Cristina Barragán. Il lavoro della giovane cineasta, appena trentenne, ci ha peraltro posto nuovamente in contatto con una cinematografia, quella dell’Ecuador, poco nota in Italia ma resa protagonista qualche anno fa, a Genova, di un bel festival interamente dedicato a essa. Fatta questa premessa, c’è da dire tuttavia che in Alba le promettenti istanze narrative e ambientali non trovano poi adeguato riscontro in un approccio registico meno incisivo e originale di quanto fosse lecito aspettarsi.
Cominciamo intanto a inquadrare le coordinate essenziali di un racconto cinematografico incentrato sulle inquietudini preadolescenziali della protagonista e su (neanche troppo) velati conflitti di natura sociale. Per comodità facciamo pure riferimento alla sinossi ufficiale: Alba è una ragazzina introversa e solitaria che ha imparato a convivere con la malattia della madre e a giocare in silenzio per non disturbarla. Quando le condizioni della donna si aggravano e viene ricoverata in ospedale, Alba viene affidata a Igor, il padre che non vede da quando aveva tre anni. Vivere con lui è un’esperienza nuova e difficile, almeno quanto è difficile sentirsi accettata dalle compagne di scuola. Poi ci sono gli imbarazzi e le inadeguatezze, le prime mestruazioni, i racconti dei primi baci, i giochi crudeli degli adolescenti, le visite alla madre in ospedale, gli sforzi impacciati e affettuosi di Igor per tentare di avvicinarsi a lei. Un percorso tra tenerezza e dolore che porta Alba all’ingresso nell’età adulta.
Ecco, ci sono all’interno di questo indubbiamente sentito racconto di formazione scene forti, che riescono a rappresentare le problematiche personali e famigliari della protagonista (impersonata con discreto carisma dalla giovanissima Macarena Arias) talora attraverso un pathos genuino, verace, talora con lampi di humour inacidito e sferzante: questo è ad esempio il caso della scena in cui la ragazzina non si fa riaccompagnare in macchina nella povera dimora del genitore, vergognandosene platealmente, ma preferisce farsi portare di fronte alla casa di una famiglia benestante, a lei sconosciuta, che le apre la porta con visibile imbarazzo. Qui la poetica del disagio si sposa bene con quella visione critica degli sbarramenti sociali, delle differenze di classe, che nel cinema dell’Ecuador fa capolino spesso e volentieri. Il complicato rapporto col padre si staglia ugualmente con una certa forza. Peccato, però, che soluzioni narrative del genere si facciano strada troppo sporadicamente, e con diseguale riuscita, in un sostrato filmico che per gran parte del tempo pare limitarsi allo sguardo distaccato, finanche amorfo, rivolto dalla regista alle piccole tensioni interne allo stesso gruppetto di adolescenti di buona famiglia, da cui Alba era riuscita in qualche modo a farsi accettare. Ed è parimenti un limite che la cornice potenzialmente esplosiva finisca poi per riflettersi in contrasti caratteriali/sociali fin troppo prevedibili e nella scialba osservazione dei comportamenti posti in essere da quel minuscolo branco di ragazzine e ragazzini annoiati, disperdendosi stancamente dentro l’ambiente ovattato, posticcio, nel quale costoro si trovano costantemente a bivaccare. Anche il punto di vista espresso su simili compagnie dalla giovane protagonista risulta pertanto omologato, in qualche misura annacquato, persino nel momento in cui lei decide di ribellarsi e prendere una strada diversa.