Ci sono vari modi in cui il cinema può assumere una forte valenza sociale, politica. In certi casi a prevalere è un approccio descrittivo, lineare, ai confini del didascalico, che rende evidenti sin dall’inizio le intenzioni dell’autore. Il rischio è ovviamente che l’eccessiva prevedibilità dell’intreccio appiattisca la vis polemica dell’opera, collocandola sul binario morto di una pedissequa ricostruzione di eventi, situazioni date, scenari possibili. In altri casi una realtà in tumulto diviene invece il pretesto per imbastire, narrativamente parlando, qualcosa di più sottile, che nel girare intorno ai problemi e nell’accostarsi a essi da un’angolazione differente finisce, sorprendentemente, per sottolinearne ancora di più l’urgenza, la durezza, il carattere destabilizzante. Ci sembra che proprio a questo si arrivi con lo spiazzante e conturbante I kóri (La figlia) di Thanos Anastopoulos.
Quanto accaduto in Grecia negli ultimi anni è sotto gli occhi di tutti. Intere famiglie rovinate, un’economia allo sfascio, disoccupazione alle stelle, banchieri e governanti europei protagonisti di un’autentica rapina sociale, una classe dirigente locale che ne è stata complice. Vengono realizzati anche validi documentari, a riguardo. Ai quali si può magari aggiungere qualche film di denuncia, inteso nella sua accezione più classica. E in fondo anche questo un valore ce l’ha. Ma un lungometraggio come I kóri, presentato alla Berlinale nel 2013 e riproposto ora al Bergamo Film Meeting per omaggiare un talentuoso outsider della cinematografia ellenica, Thanos Anastopoulos, di sicuro va oltre, perché al profondo disagio della collettività allude ma non vi resta ancorato; dando così vita a un racconto cinematografico secco, essenziale, indissolubilmente legato ad atmosfere in cui la tensione, simile a un gas potenzialmente letale, ristagna nell’aria per poi esplodere alla minima scintilla. E la miccia in questo caso è nelle mani di Myrto (interpretata da una grintosissima Savina Alimani), adolescente la cui famiglia sta vivendo un momento assai delicato, determinata però al punto di reagire alla difficile situazione de suoi (una coppia in crisi, anche sul versante privato, col padre che per le scorrettezze del socio e il cinismo delle banche sta per perdere la falegnameria, sua unica fonte di reddito) elaborando un piano disperato, magari assurdo, indicativo però della volontà di non arrendersi: il rapimento del piccolo Aggelos, con cui la ragazzina ha confidenza trattandosi del figlioletto di quell’uomo che, in affari col padre, ha finito per metterlo nei guai. Myrto finirà per recludere Aggelos proprio in quella falegnameria, apparentemente abbandonata, dove al tempo del lavoro sembra essersi sostituita una straniante desolazione. E lì, in quel temporaneo esilio, al riparo da occhi indiscreti, la forzata convivenza dei due ragazzini regala suggestioni notevoli, finendo persino per ricordare (con tutte le differenze del caso) la magistrale analisi spaziale e l’approccio esistenzialista del Bertolucci di Io e te. Del resto l’efficacia del lungometraggio di Thanos Anastopoulos si poggia anche su una fotografia decisamente ispirata, nonché sul rapporto fortemente dialettico tra la psiche e il contesto, tra intimità e accenni di epos, un epos ben rappresentato dalle scene incidentali (ma non troppo) delle manifestazioni, nella Grecia in rivolta di questi anni.
L’ottimo spunto del rapimento dà perciò vita a un’escalation drammaturgica, che tiene il film costantemente in bilico tra l’aura della tragedia sociale e i paradigmi del cinema di genere, scandagliati quasi in chiave noir. Non ci sorprende a questo punto che il film avesse trionfato all’epoca agli Hellenic Film Awards, dove vinse i premi per la miglior regia, migliore sceneggiatura e migliore fotografia. Ed era già un buon viatico, questo, per l’evolversi della tagliente filmografia di Thanos Anastopoulos, cineasta greco già abituatosi ai riconoscimenti col precedente lungometraggio Diorthosi e poi attivo, con profitto, anche in Italia.