«”Le quattro volte” indica il numero di vite incastonate l’una nell’altra che ciascuno di noi possiede, e di conseguenza le volte che dobbiamo conoscere noi stessi».
In un paese della Calabria collinare, un vecchio pastore vive i suoi ultimi giorni, accasciandosi nel suo giaciglio davanti a insoliti testimoni, le capre; una capra partorisce un capretto da subito impegnato nella lotta per la sopravvivenza; un albero viene abbattuto per diventare il fulcro di una festa dal retaggio pagano; i carbonai ricavano il carbone dall’abete bianco, precedentemente idolatrato.
La scena iniziale del film inquadra un gruppo di carbonai su un cumulo di terra colti nel momento del loro lavoro rituale con il quale la legna posta sotto il terreno si trasforma in carbone, emanando fumi che, uniti ai colori della scena e al battere reiterato della pala contro la terra, contribuiscono a creare un’atmosfera suggestiva. Ma l’inizio è anche il punto verso cui tende l’intero film che, pur non recintando lo sguardo dello spettatore in un perimetro interpretativo serrato, spicca per la circolarità della storia narrata.
Riprendendo un pensiero attribuito a Pitagora, Le quattro volte indica il numero di vite incastonate l’una nell’altra che ciascuno di noi possiede, e di conseguenza le volte che dobbiamo conoscere noi stessi. Partendo da questo principio secondo cui l’uomo è al tempo stesso un minerale, un vegetale, un animale e un essere razionale, la macchina da presa di Michelangelo Frammartino scompone l’unità contenuta nell’uomo in quattro storie, dove chi guarda deve ben presto abituarsi a soffermarsi sui passaggi dall’uomo all’oggetto, tratto essenziale del film, obbligandolo a uscire dalla posizione di osservatore passivo per conquistare piuttosto la condizione privilegiata di costruttore di senso. In questo lavoro di riscatto dello spettatore, non possiamo non riconoscere le influenze derivate dal precedente impegno nella videoarte e nelle video-installazioni del regista, campi artistici da cui mutua i modi di concepire l’arte come lavoro aperto e, pertanto, fortemente orientato allo spettatore in quanto creatore di percorsi semantici inediti.
Ambientato in piccoli paesi della Calabria, il film punta i riflettori sulla credenza in antiche usanze popolari e sulla sopravvivenza di riti intorno ai quali la collettività organizza il suo vivere sociale, lasciando soccombere la luce della ragione dinanzi al fascino arcano della tradizione. Così, in una visione della vita pensata nella sua essenziale architettura concatenata e ciclica, un anziano pastore lentamente si spegne nella convinzione di potersi curare con la polvere santa della chiesa, mentre fuori dalle mura della sua casa di confine inizia a prendere piede, con grande trambusto, il successivo protagonista della storia, l’animale. Le capre invadono lo spazio deputato all’uomo, indicando il prossimo cambio di scena in un ribaltamento di ruoli attivato proprio dall’ultimo respiro del vecchio pastore a cui segue la nascita di un capretto. Il capretto vive e si muove in un disagio esistenziale che lo accomuna all’uomo, tanto più che il suo belato sembra un lamento umano esasperato quando, smarrito il branco, avverte il momento di maggiore difficoltà e ormai solo cerca riparo sotto un albero. Gli stacchi del montaggio intervengono ancora una volta per segnare il passaggio da una condizione dell’essere a un’altra, spostando l’attenzione su un grande abete bianco sradicato in gran foga e portato in processione al paese in occasione della Festa della Pita. Conclusa la festa, l’albero si svuota di quella sacralità rituale di cui era stato investito per essere sepolto sotto terra dai carbonai impegnati nel loro cerimoniale lavorativo rivolto all’ottenimento del carbone.
Assistiamo al passaggio dell’essenza vitale in un processo di reincarnazione senza fine cadenzato da ritmici e ripetitivi rumori intrinsechi allo stadio evolutivo dell’essere e identificativi di una condizione naturale: la tosse costante è la voce del vecchio pastore, il belato strozzato identifica la capra, la motosega l’albero e la pala con cui si batte il terreno il carbone. In particolare, quest’ultimo rumore si caratterizza in quanto sottotraccia sonora dell’intera storia, segnando il battito invisibile che aleggia e da respiro al film.
“Le quattro volte”, neo-vincitore di importanti premi a Cannes quali il SACD (società autori e compositori drammatici) previsto per la Quinzaine, e il Palm Dog, un simpatico riconoscimento istituito quest’anno e rivolto ai più meritevoli attori a quattro zampe capaci di offrire una performance convincente, si imprime nella mente per la sua tanto elegante quanto incisiva poetica.
Francesca Vantaggiato
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