Che cos’era il Cinemastation? E come vi è venuta l’idea di girarci un documentario?
Anthony Ettorre: Giuseppe ed io (entrambi di Taranto, ma ci siamo conosciuti a Roma) proveniamo dall’esperienza del Detour, storico cineclub romano che, negli anni, ci ha formato e a volte, come nel caso di “Via Selmi, 72 – Cinemastation”, ci ha spinto ad autoprodurre lavori a budget zero. Con Mauro condivido passioni sia cinefile che musicali (vedi l’avventura “indie” Novamuzique.net, webzine dedita alla promozione di “musica non convenzionata”). Tutti e tre frequentavamo Cinemastation, questa piccola videoteca di Ponte Mammolo, a due passi dal carcere di Rebibbia.
Giuseppe Cacace: L’idea di raccontare la videoteca è maturata con il tempo. Era un posto così insolito, bizzarro e affascinante (ma si potrebbe anche dire lercio, puzzolente e disgustoso), frequentato da persone così diverse tra loro che era impossibile non venirne catturati… e poi c’era Angelo, il proprietario, un incrocio tra Bukowski, Lebowski e il dr Gonzo di Hunter S. Thompson. Insomma, il documentario era nell’aria.
Quando avete cominciatio a girare il documentario avete pensato anche a dove proiettarlo?
Mauro Diciocia: Personalmente, quando abbiamo cominciato a girare, ho pensato solo a fare un film decente! I festival erano una remota speranza, più che un obiettivo.
A.E. Eravamo troppo coinvolti nell’esperienza di Cinemastation per pensare al dopo, anche se, guardando il girato, abbiamo più volte immaginato come avrebbe reagito un potenziale pubblico. Volevamo che, anche chi non c’era mai stato e non aveva sofferto per la sua chiusura, potesse sentirne la mancanza.
G.C. La verità è che mentre noi lavoravamo all’ennesimo montaggio definitivo, Laura Bartoletti, la moglie di Anthony, con la fondamentale collaborazione di Gabriele Barcaro, ha avviato un impeccabile lavoro di ufficio stampa e promozione…
Di cinema ne avete visto molto avendo gestito per anni un cineclub. Che idea vi siete fatti del cinema indie che gira in questi anni?
G.C. Il nostro documentario nasce dalla volontà di raccontare un’esperienza. Eravamo convinti che la storia di Angelo, della videoteca e dei suoi frequentatori meritasse di essere raccontata. Banalmente, avevamo qualcosa da dire e l’abbiamo fatto. Per me il cinema non vincolato a logiche di mercato ha il dovere di dire qualcosa. È questa l’unica vera indipendenza. Per il resto, tutti i film dipendono da qualcosa, e il nostro non fa eccezione: è dipeso dalla disponibilità di chi ha partecipato, dalla necessità di un compromesso tra noi tre, e non ultimo dalla capacità di sopportazione delle nostre rispettive compagne, costrette a vedere e rivedere e rivedere il nostro lavoro prima, durante e dopo il montaggio.
M.D. Il fatto è che oggi basta una videocamera ed un computer per fare un film. È chiaro che la differenza la fanno le idee. Vedo molte cose ben fatte ma carenti di significato, come vedo tanta roba confezionata malissimo con discrete idee alla base. Anche il nostro film non è proprio come lo avremmo voluto, ma è vero, comunica e la riprova è stata la reazione del pubblico dell’Auditorium. Oltre ogni nostra aspettativa.
Secondo voi ci sarà, prima o poi, un ritorno alle videoteche d’autore oppure quel contesto è morto e sepolto? Insomma che fine faranno le videoteche di una volta in cui potevi parlare di cinema con il commesso del negozio?
M.D. L’unica videoteca possibile è il p2p con cui puoi scaricarti 100 anni di cinema in poco tempo. Questo ha mandato in panne il colosso Blockbuster, figuriamoci le piccole e romantiche videoteche come quella di Angelo.
A.E. Sono convinto che ci saranno sempre meno videoteche, ma spero emergano sempre più luoghi in cui poter condividere la passione del cinema, fuori da contesti istituzionali. Quindi, più associazioni culturali o cineclub. La comunicazione ha bisogno di essere liberata. Ma che non siano blog o comunità virtuali. Le passioni vanno vissute e condivise “a pelle”!
G.C. Vi immaginate che tristezza se Angelo riaprisse Cinemastation su Second Life?
Vincenzo Patanè