Sinossi: Paolo ha trent’anni e conduce una vita solitaria. Il suo passato è segnato da una vita passata in orfanotrofio, abbandonato dalla madre che non ha mai conosciuto. Dopo una storia di otto anni con un uomo viene lasciato e incontra una sera Mia, una ragazza incinta, problematica e prorompente coetanea che porta scompiglio nella sua vita. Spinto ad aiutare la ragazza per compassione, inizia un lungo viaggio da Torino fino in Sicilia per riaccompagnarla a casa. Attraversando l’Italia iniziano a scoprirsi a vicenda.
Recensione: Il cinema italiano negli ultimi anni ha visto debuttare e affermarsi (anche a livello internazionale) una serie di autori e autrici (citiamo a titolo di esempio Saverio Costanzo e Alice Rohrwacher) che continuano a rinnovare la tradizione della commedia e del dramma. I vari Virzì, Martone, Sorrentino, Garrone sono della generazione precedente ormai affermatasi e creatori di un nuovo cinema autoriale riconoscibile. Oltretutto abbiamo una rinascita del documentario con tutta una serie di registi che se non si possono definire come “scuola italiana”, certamente una corrente che si fa sentire a livello internazionale (pensiamo a Rosi, D’Anolfi & Parenti, Minervini). Fabio Mollo è un giovane regista che cerca di portare avanti un suo discorso in entrambi i campi. Il padre d’Italia è la sua seconda opera di fiction dopo Il Sud è niente che ha avuto una visibilità ampia (presentato a Berlino, a Toronto e Roma, raccogliendo consensi e simpatie).
Il tema principale del film è una ricerca di affermazione di paternità e maternità, al di fuori della famiglia tradizionale: Paolo è un omosessuale riservato, che vive la propria vita in un tran tran quotidiano fatto di lavoro e di un amore finito perché non voleva impegnarsi; Mia è una donna che vuole dalla vita qualcosa di straordinario e la maternità appare subita anche se decide di avere la figlia, pur sapendo che non riuscirà mai a darle un’esistenza tranquilla. L’incontro di queste due solitudini porta a un confronto tra i personaggi che mettono sul piatto le proprie debolezze e desideri. Alla fine, Paolo accetta una paternità emozionale che diventa un surrogato di una maternità rifiutata da Mia, donando la figlia all’uomo conosciuto per caso e scomparendo così com’era apparsa.
Mollo inserisce i due personaggi all’interno di uno scenario urbano spoglio, identificabile esclusivamente dalla toponomastica esclamata dai due, ma composta da strade periferiche tutte uguali (c’è poca differenza tra Torino, Roma e Napoli) e una Sicilia che viene rappresentata metonimicamente dal mare. Il paesaggio esteriore rappresenta quello interiore di Paolo e Mia, individui anomici, solitari, dove la folla, la città, sono fondali di una vita in fieri, in cerca di una maturità di scopi che non si trovano. Paolo proietta le sue frustrazioni amorose su Mia e la sua futura maternità, mentre Mia si appoggia momentaneamente a Paolo, comprendendo di avere trovato un possibile porto sicuro per la figlia. Mia non può donare nulla, non avendo nessun punto fermo necessario nella propria vita raminga ed eccessiva, alla continua ricerca di se stessa e di un’affermazione di libertà assoluta dalla famiglia e dalla società che la vorrebbero donna accasata. Del resto, la “strana coppia” è emblematicamente identificata nella sequenza della loro passeggiata verso la spiaggia, mentre viene vista in soggettiva dagli abitanti del paese con sguardo severo e ostile, a conferma della loro esclusione dalle regole sociali.
Ma Il padre d’Italia, purtroppo, non esprime in modo compiuto lo sviluppo diegetico, appoggiandosi alle interpretazioni di Luca Marinelli (Paolo) e Isabella Aragonese (Mia) che non sono aiutati da una sceneggiatura, a dire il vero, scarna se non povera, su un soggetto che non riesce a reggere il minutaggio di un lungometraggio. Ecco che allora le scene diventano ripetitive, a volte appaiono dei riempitivi che non hanno un vero valore aggiunto nell’evoluzione della vicenda dei personaggi. I due attori a tratti non riescono a riempire con la loro recitazione una regia che appare claudicante. I dialoghi poi sono o didascalici (come la scena nella cucina di famiglia in cui c’è un confronto tra la Mia e sua madre) o inverosimili (i dialoghi tra Paolo e il suo ex amante). Oltretutto, il supporto tecnico non è sempre all’altezza: la fotografia è piatta e monocromatica; il suono in presa diretta non è sempre pulito (si fa fatica a sentire le parole degli attori che recitano in esterni); la musica spesso tracima e si sovrappone al sonoro diegetico e ai dialoghi in un montaggio non sempre perfetto. Insomma, un passo falso per Fabio Mollo che non riesce a mettere in scena in modo organico un tema sentito e contemporaneo come l’incertezza della sessualità e della genitorialità cercata o indesiderata.
Antonio Pettierre