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The road

« “The Road” è la strada che è scavata dentro di noi, è il DNA della sopravvivenza e, al contempo, la strada del bene contro il male».

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Sin dagli esordi del cinema, il genere apocalittico ha visto impegnati diversi registi, spesso ispirati a romanzieri com’è stato per The road. Dal film di Abel Gance, La fin du Monde (1931), il cui successo portò ad elaborare una versione per il mercato americano nel 1934, a L’ultima spiaggia (1959) di Stanley Kramer. Nel 1964 l’Italia si avvicinava timidamente al genere con L’ultimo uomo della Terra (tratto dal romanzo Io sono leggenda di Richard Burton Matheson), firmato da Ubaldo Ragona. In realtà il film fu girato interamente da Sidney Salkov come riportato in Nocturno (n° 87) ma le riprese vennero effettuate nel bel paese. Il genere in questione è stato portato al suo picco commerciale con la saga Il pianeta delle scimmie tra il 1968 ed il 1973. Tale successo sarà alla base del ciclo Mad Max (1979-1985) con ben tre film. La tv dopo tanti successi cinematografici, sdogana il genere con il film americano, seguito alla prima messa in onda da circa 100 milioni di persone The day after (1983). Waterworld (1995), di Kevin Reynolds vede protagonista un Kevin Costner, il quale nel 1997 interpreta e dirige The postman. Negli ultimi anni il genere si è velocemente de-generato, dando vita a cloni di quanto già fatto, alcuni più, altri meno ricchi di inventiva. Tra questi ricordiamo il remake L’ultima spiaggia (2000) di Russel Mulcahy, l’ottimo 28 giorni dopo (2002) di Danny Boyle, The day after Tomorrow (2004) di Roland Emmerich. Francis Lawrence ha riportato sul grande schermo Io sono leggenda (2007). Si sono avvicinati al genere anche autori non proprio definibili di genere quali Shyamalan, col suo interessante E venne il giorno (2008) ed un autore con la a maiuscola come Michael Haneke, il quale con il suo poco distribuito ma eccezionale Il tempo dei lupi (2003) ha messo in scena quanto di peggio l’umanità potrebbe arrivare a fare di fronte ad una catastrofe, lasciando, strano a dirsi per lui, un barlume di speranza nel finale. È in questo contesto che si colloca il film di Hillcoat,  a pochi mesi di distanza dal periodo in cui, peraltro, è uscito il più catastrofico dei film: 2012 di Roland Emmerich.

Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, autore del successo Non è un paese per vecchi portato sul grande schermo dai fratelli Coen, The Road è un fantasy-apocalittico elaborato e minimale al tempo stesso. Va sottolineato che il produttore Nick Wechsler non era riuscito ad assicurarsi i diritti del romanzo Non è un paese per vecchi. È per questo motivo che, essendo un fan accanito dello scrittore, ha opzionato a scatola chiusa il romanzo successivo di McCarthy. Dal punto di vista produttivo un valore aggiunto molto importante lo dona al film l’ambientazione che, nonostante sembrerà allo spettatore frutto di complicate elaborazioni di computer grafica, è in realtà per la maggior parte di assoluta natura realistica. Molte ambientazioni sono infatti tratte da scenari della New Orleans posto Katrina, il Monte St. Helens a Washington e le zone della Pennsylvania e intorno a Pittsburgh, luoghi segnati dall’abbandono di interi rami industriali dismessi, divenuti archeologia industriale.

La storia è tanto semplice quanto efficace. Padre e figlio vagano verso il Sud degli Stati Uniti, all’indomani di un non precisato evento catastrofico, cercando di non farsi uccidere da bande di cannibali. Il premio Oscar Viggo Mortensen, magrissimo per entrare nel personaggio, interpreta il padre del ragazzo, riuscendo a rendere credibile ogni singolo istante del film, comprese le scene più crude, come quella durante la quale obbliga un uomo di colore (Michael Kenneth Williams) che aveva tentato di rubargli tutto a togliersi tutti i vestiti. Ma vera sorpresa di questo film è la scoperta di un talento straordinario: il giovane attore, figlio d’arte, che interpreta il ragazzo (Kodi Smit-McPhee). Mortensen a tale riguardo ha dichiarato: “È un attore straordinario. Ritengo che la sua interpretazione rimarrà negli annali.” Molte le scene che vedono il giovane attore alle prese con difficili sensazioni da veicolare. Il ragazzo rappresenta la parte buona dell’umanità e non a caso parla continuamente di quello che gli ha detto suo padre riguardo gli uomini che “portano il fuoco dentro”. Molto forti risultano le scene durante le quali il padre ricorda al figlio come suicidarsi per evitare di essere mangiato vivo. Il ritmo lento viene spezzato da scene concitate di fuga. Una scena di puro terrore è riservata alla scoperta della “riserva di cibo” dei cannibali, all’interno di una cantina.

Dal punto di vista psicologico, McCarty è riuscito in un’impresa particolarmente interessante, vale a dire mettere sotto la lente d’ingrandimento quel sentimento genitoriale che si può riassume in “chi si prenderà cura di mio figlio quando io non ci sarò più?”. Mentre nella norma umana, ci sono gli zii, le mogli o più in generale una società che lo ospita, McCarthy mette l’uomo di fronte alla sconcertante realtà che dopo di lui non ci sarà assolutamente nessuno. È questo il vero centro della narrazione. L’uomo, isolato, nella natura più ostile che si possa immaginare, con inoltre la preoccupazione di cosa sarà di suo figlio dopo la sua morte.

La scelta della messa in scena ha desaturato il più possibile i colori, portando ad una visione grigia degli ambienti, che riprendono luce e colore solo durante i flashback riguardanti la vita prima della scomparsa della moglie (Charlize Theron). Padre e figlio non possono cogliere, infatti, la bellezza dei colori, impegnati come sono nella ricerca di cibo e rifugi sicuri. Un momento solo è riservato al colore: la scoperta di una lattina di Coca-Cola che il figlio non aveva mai assaggiato prima.

Peccato vi siano nel film due scene che lasciano lo spettatore con degli interrogativi senza risposta ma, nonostante questo, il film convince per la maggior parte del tempo, trascinandoci lentamente, col ritmo di questi due disperati, alla ricerca di una prospettiva di vita migliore, convincendoci che lottare per migliorare il proprio stato non è un qualcosa che dobbiamo meditare, ma è un istinto innato dentro di noi.  Quel “fuoco dentro” non è altro che la strada giusta da seguire, sempre.

Fabio Sajeva