L’importante è amare è un film del 1975 diretto da Andrzej Żuławski. È il primo film del regista girato al di fuori della Polonia. Żuławski decise di emigrare in Francia dopo essersi visto bloccare dalla censura polacca il suo secondo film, Il diavolo del 1972, legittimato ben 16 anni dopo. La pellicola, presentata al Premio César nel 1976, ha vinto il premio per la migliore attrice per l’interpretazione che la stessa Romy Schneider ha ritenuto la migliore della sua carriera.
Un tempo l’attrice Nadine Chevalier era famosissima. Ora tutti l’hanno dimenticata e lei, per vivere, è costretta a interpretare film pornografici. Così Mons, fotoreporter d’assalto, quando la incontra casualmente, quasi non la riconosce. Ma poi se ne innamora e arriva a contrarre dei debiti pur di procurarle una scrittura adeguata. Zulawski ha fama di visionario, ma in realtà si limita a essere barocco fino alla noia. Qui riesce addirittura a sprecare Romy Schneider.
Vertiginoso e “classico” al contempo, saltellante e quasi combattuto fra la forza scenografica del melodramma e lo spasmo sofferente del thriller sentimentale, L’important c’est d’aimer è la terza opera di Andrzej Zulawski, dopo due film realizzati in Polonia, La terza parte della notte (1971) e Il diavolo (1972). L’apertura al cinema internazionale è per il grande regista di Possession (1981, venuto subito dopo questo) l’occasione per dare dimostrazione del suo piglio registico, ben distinguibile anche nell’opera successiva.
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L’importante è amare
La regia di Zulawski è umorale, materica, a un passo dal sublime e dall’osceno. Sono tante, infatti, le emozioni che riesce a procurare allo spettatore, e ognuna smentisce quella precedente e quella successiva, senza ordine logico di sorta, come un motore anarchico che coglie gli sconvolgimenti ingenui di un microcosmo alla deriva. È la passione, quella che interessa a Zulawski, un amor fou che, a differenza dalle conclusioni contemporanee di illustri colleghi francesi, rende folle anche il gesto filmico, in altri casi cinematografici sempre più distante e classicamente coinvolto, raramente sconvolto come in questo caso.
La recensione
Con una macchina da presa a mano che vibra al ritmo di un respiro fuoricampo, interessato a conoscere nel profondo le crisi interiori dei suoi personaggi bizzarri (stupendo quello di Klaus Kinski, quasi una parodia omosessuale, in certi momenti, di un burbero Marlon Brando). Zulawski sembra sempre assaltare i suoi personaggi, tramite zoomate secche ma non troppo veloci o movimenti sovraccarichi ed eccessivi che plasmano le figure e gli ambienti. La sequenza iniziale è in qualche modo emblematica di come le figure umane si inseriscono all’interno dell’inquadratura zulawskiana. Romy Schneider, attrice quasi fallita costretta a girare porno per guadagnare, percorre le due stanze del set del film che sta realizzando, dando misura dell’ambiente in cui si trova, raggiungendo il corpo sanguinante di un uomo.
In L’important c’est d’aimer Zulawski adotta due metodi diversi per sottolineare l’emozione palpitante che muove i personaggi, e anche l’immensa differenza fra l’iconografia del melodramma classico e l’ipercinesi che ripercorre fedelmente le passioni. Alterna sequenze in cui è l’inquadratura quasi ferma a dare la definizione dei luoghi in cui ci si trova, il più delle volte ariosi interni di vecchie case o della platea di un teatro, a sequenze in cui sono le figure umane, osservate da molto vicino, a costruire un percorso, o addirittura il moto differente, violento, della macchina da presa, che però si arrotola e si incentra sempre sulle figure umane. Sembrerà fuori tema, rispetto all’ambiguo fine ultimo del film, ma questa duplicità dello sguardo zulawskiano dà la misura di quanto sia concreta e corporea la sua mano, la sua attenzione.