A quattro anni di distanza da Gloria, ritratto onesto di una donna di mezza età in cerca di autoaffermazione e indipendenza interpretata da una (in)credibile Paulina García, Sebastián Lelio ritorna con la storia di un’altra donna fantastica, Marina Vidal. A dare forma, voce e colore a Marina è l’attrice transgender Daniela Vega, eccezionale nel modulare l’intensità del suo ruolo drammatico e di ousider. Marina si guadagna da vivere lavorando come cameriera e cantando. Ha una relazione con Orlando (Francisco Reyes), un imprenditore tessile con moglie e figli alle spalle. Insieme sono felici, celebrano il compleanno di Marina, sono affettuosi e sessualmente riempiti l’uno dall’altra. Poi Orlando si sente male all’improvviso e muore. La donna fantastica (A fantastic woman) che era Marina si dissolve nel pregiudizio di medici, polizia e famigliari dell’uomo amato, i quali non le risparmiano grettezza e offese neanche nel momento doloroso della perdita.
Lelio ritrae Marina, misurata, amorevole, coraggiosa e sincera, e il suo circondario confuso, aggressivo, irrispettoso, piccolo. Marina, una bellissima donna dalla voce angelica intrappolata in un corpo che le affibbia il genere sbagliato, è vista come una creatura mostruosa, una perversione della natura, una criminale che non merita nessuna comprensione. Non è così però nel nostro sguardo, negli occhi di Lelio per cui Marina è solo Marina, con i suoi guai, il suo procedere quotidiano, le sue doti e ambizioni, i suoi sentimenti, la rivendicazione del diritto di essere compresa o almeno lasciata in pace.
La musica, anche nelle sue sfumature pop o più scontate come (You Make Me Feel Like) A Natural Woman di Aretha Franklin (in Gloria si omaggiava la canzone italiana con Umberto Tozzi), potenzia gli stati d’animo in maniera del tutto nuova. L’aria catartica Sposa son disprezzata di Giacomelli intonata in compagnia del paterno maestro di canto o i beat elettronici composti da Matthew Herbert sono le note blu in cui si Marina si lascia andare alla sua sofferenza, al bisogno di sentirsi libera di essere.
Questa lotta per l’affermazione dei diritti basilari, per la garanzia della translibertà senza stigma e senza ghettizzazione combattuta da un essere umano alienato è densa di simbolismi fantastici, come l’inaspettata scena del vento diventato all’improvviso un ostacolo insormontabile o il balletto liberatorio e via di fuga tutto glitter e lustrini. O ancora, il passaggio obbligato in sauna da corpo femminile a maschile per recuperare qualcosa appartenente a Orlando. Un ritratto di signora di rara sensibilità.
Diversa la fattura di Viceroy’s House, ossia nascita di una, ops, due nazioni. Corre l’anno 1947 e Mountbatten (Hugh Booneville) è mandato in India in qualità di ultimo viceré britannico incaricato di gestire la liberazione dell’India dalla corona inglese. In contatto con Gandhi, sostenitore di un’India unita nel nome dell’amore, con Nehru (Tanveer Ghani) anch’egli contrario alla divisione del Paese e con il separatista e fautore della nascita del Pakistan Jinnah (Denzil Smith), Mountbatten si convince dell’impossibilità di un’unificazione pacifica tra le diverse minoranze religiose. Radcliffe è il funzionario che non ha mai messo piede in India e a cui è affidato il compito di dividere a colpo d’occhio l’India. A trattato finito, Mountbatten e Jinnah si rendono conto di essere stati manovrati e il popolo soffre più che mai dando origine a un movimento migratorio mortifero. È sicuramente interessante e attuale rispolverare questo intrigo internazionale del secondo dopoguerra all’indomani di Brexit,
Gurinder Chadha inserisce un collegamento emozionale meno politico e più umano con l’amore drammatico – impossibile o quasi – alla Montecchi e Capuleti tra Aalia, musulmana, e Jeet, induista, entrambi a servizio del viceré. Il film si lascia guardare e seguire facilmente pur rimanendo imprigionato nello stile leggero della soap opera. Peccato.
Francesca Vantaggiato