In Sala

Austerlitz

Attraverso una serie di riprese a camera fissa il regista Sergei Loznitsa immortala, in modo neutro e senza filtri, una giornata estiva all’ex campo di concentramento di Sachsenhausen, preso d’assalto da orde di turisti. L’intento di Loznitsa, cineasta ucraino purtroppo poco noto in Italia, non è tanto di restituire la percezione dell’orrore indicibile attuato e perpetrato dalla macchina nazista ma d’inquadrare l’Olocausto in chiave contemporanea, mostrandoci come ci rapportiamo ad esso oggigiorno a distanza di oltre settant’anni

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Sinossi: Vi sono, in Europa, luoghi che sopravvivono come dolorose memorie del passato, fabbriche in cui gli esseri umani sono stati ridotti in cenere. Oggi questi siti sono luoghi del ricordo che, aperti al pubblico, accolgono migliaia di turisti ogni anno. Il film, ispirato all’omonimo romanzo di W.G. Sebald dedicato all’Olocausto, si concentra sui visitatori di questo luogo del ricordo creato sull’area di un precedente campo di concentramento. Perché la gente viene qui? Che cosa cerca?

Recensione: Attraverso una serie di riprese a camera fissa il regista Sergei Loznitsa immortala, in modo neutro e senza filtri, una giornata estiva all’ex campo di concentramento di Sachsenhausen, preso d’assalto da orde di turisti. In poco meno di trenta inquadrature, partendo dall’esterno del campo per poi addentrarsi all’interno seguendo il percorso dei tour guidati fino a tornare nuovamente al di fuori dei cancelli, assistiamo ad un flusso impressionante e ininterrotto di turisti, spesso indifferenti e annoiati, quasi inconsapevoli del luogo in cui si trovano, più interessati a scattare foto e a farsi selfie che a guardare coi propri occhi e a riflettere su ciò che stanno vedendo. C’è chi arriva a farsi fotografare in posa davanti ad un palo di legno usato per le esecuzioni, chi davanti ai forni crematori con tanto di sorriso splendente come se alle proprie spalle ci fosse la Tour Eiffel o un panorama mozzafiato. Nel mentre, nel costante via vai di persone che si accalcano all’interno del campo, intercettiamo alcune frasi delle guide turistiche, impegnate a raccontare la storia di un gruppo di sonderkommando di Auschwitz, che si ribellò alle SS facendo saltare un forno crematorio con dell’esplosivo ottenuto grazie alla collaborazione di alcune donne, o quella dell’attivista tedesco Georg Elser (arrestato e deportato proprio a Sachsenhausen) che pianificò un attentato dinamitardo in una birreria di Monaco contro Hitler, scampato casualmente all’attentato perché abbandonò il posto tredici minuti prima dell’esplosione. L’ultimo, lungo, insostenibile, piano sequenza coincide con la fine della giornata, con la chiusura del campo. La macchina da presa è posizionata all’esterno dei cancelli, intenta a riprendere la massa di turisti che si accalca verso l’uscita. I visi sono perlopiù allegri e sorridenti, non sembra esserci traccia di sofferenza o turbamento, comitive di giovani e meno giovani ridono e scherzano tra loro, una famiglia è impegnata a farsi un selfie – con tanto di bastone – a pochi passi dai cancelli, davanti alla scritta Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi). Dopo vari scatti, non contenti del risultato finale, se ne fanno fare una da una coppia per poi contraccambiare il favore.

Austerlitz, che deve il suo titolo all’omonimo romanzo di Winfried G. Sebald, è tutto questo e molto di più. L’intento di Loznitsa, cineasta ucraino purtroppo poco noto in Italia, non è tanto di restituire la percezione dell’orrore indicibile attuato e perpetrato dalla spietata ed efficientissima macchina amministrativa nazista ma d’inquadrare l’Olocausto in chiave contemporanea, mostrandoci come ci rapportiamo ad esso oggigiorno e come lo concepiamo a distanza di oltre settant’anni. Il nostro è un approccio distante, indifferente, anestetizzato, si visitano i luoghi dell’orrore come si visiterebbe un parco giochi o un centro commerciale. Tutto resta in superficie in una concezione consumistica, vissuta con non curanza e leggerezza, svuotata e privata di ogni significato. Austerlitz con le sue inquadrature fisse e immobili lascia piena autonomia allo spettatore, libero per novanta minuti di guardare e seguire tutto ciò che passa davanti all’obbiettivo del regista e di abbandonarsi, nel mentre, a pensieri e riflessioni. Se andare in visita ad un ex campo di sterminio si trasforma in un’oscena gita a Disneyland significa che l’umanità si è ormai assuefatta a quell’orrore e non riesce più a coglierne e a rispettarne la forte e imprescindibile valenza simbolica. La storia siamo noi, l’orrore siamo noi.

Boris Schumacher

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