Sinossi: Il viaggio di Fanny è la storia vera della tredicenne Fanny Ben-Ami e delle sue sorelle, lasciate dai genitori in una delle colonie francesi destinate a proteggere i minori dai rischi della guerra. Lì conoscono altri coetanei e con loro, quando i rastrellamenti nazisti si intensificano e inaspriscono, sono costrette alla fuga. Questi bambini dovranno fare appello a tutta la loro forza interiore e al loro coraggio per affrontare pericoli e peripezie nel tentativo di raggiungere il confine svizzero e salvarsi. Dovranno fare i conti con la fame, con il freddo, con l’odio dei nemici, ma incontreranno talvolta persone disposte a proteggerli anche a rischio della propria vita. Anche nelle difficoltà più ardue e nella paura riusciranno però a conservare il loro essere bambini, imparando a divenire indipendenti e scoprendo il valore della solidarietà e dell’amicizia.
Recensione: Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la Giornata della Memoria. La Settima Arte è sempre stata molto attenta e sensibile alla tematica, tanto che nei decenni moltissimi suoi esponenti, indipendentemente dalla latitudine di appartenenza, hanno affrontato direttamente o indirettamente la tragedia dell’Olocausto, firmando opere che hanno e continuano a lasciare un’impronta indelebile nella mente e nel cuore delle generazioni avvenire. Inutile stare qui a ricordare quanti e quali film sono stati realizzati sull’argomento, ma soprattutto non ci sembra giusto stilare una lista dei titoli meritevoli o no di una citazione, perché, oltre alla vastità dell’offerta che rende il compito arduo, è sulle storie e sul modo in cui queste sono state narrate che ci si dovrebbe concentrare. Tutte insieme, infatti, consentono di tenere viva la memoria su quanto di tremendo è stato compiuto, per fare in modo che simili atrocità non vengano mai dimenticate. Che poi ci siano opere più riuscite e incisive di altre questo è un altro paio di maniche, ma per quanto ci riguarda passa momentaneamente in secondo piano. Questo non significa, però, che non si possa improntare un’analisi critica, più o meno condivisibile, sul lungometraggio di turno. Ed è quello che faremo con il film del quale ci apprestiamo a parlare in queste pagine. Ciò che non faremo, però, è un confronto con gli altri del passato, proprio in virtù di quanto detto in precedenza, così da concentrarci unicamente sull’oggetto filmico in questione.
Ogni anno siamo qui a ricordare il valore intrinseco e l’importanza che le pellicole prodotte sul tema possiedono nel proprio Dna narrativo e drammaturgico, aggiungendo nuovi tasselli al “mosaico” della memoria collettiva. Dal canto suo, la Settima Arte contribuisce non poco alla causa e le pellicole che stagione dopo stagione approdano sugli schermi ne sono la dimostrazione lampante. Quest’anno la scelta della Lucky Red è caduta su Il viaggio di Fanny, opera terza di Lola Doillon, vincitrice del premio per il miglior film all’ultima edizione del Giffoni Film Festival, che approda nelle sale nostrane nella due giorni evento del 26 e 27 gennaio 2017.
Come avrete avuto modo di leggere dalla sinossi, il lungometraggio della regista francese non è il frutto della sua immaginazione o di quella dello sceneggiatore di turno, ma nasce da una vicenda realmente accaduta, già raccontata dalla protagonista nel suo romanzo autobiografico. Quella della Doillon ne è dunque la trasposizione cinematografica, con le pagine del libro che prendono qui forma e sostanza filmica. L’essenza e il cuore pulsante del racconto, così come i fatti principali e il disegno dei personaggi, compreso quello dell’allora tredicenne protagonista, rimangono pressoché invariati. Su di essi l’autrice costruisce l’intera architettura dello script e la successiva timeline, consapevole che prendere in prestito dalla matrice originale solamente certi elementi sarebbe stato un errore da non commettere. Questo perché nell’opera letteraria di Fanny Ben-Ami c’era davvero tutto quello di cui aveva bisogno per dare vita a un film, ossia un’anima, un ritmo, delle descrizioni e una one line che prestavano il fianco a un possibile passaggio dalla carta al grande schermo. Questa natura cinematografica ha reso l’adattamento più facile e meno doloroso. Del resto, si sa quanti e quali sacrifici si è soliti fare per consentire all’operazione di andare in porto. La piena sintonia tra le due parti chiamate in causa, ciascuna con le rispettive regole ed esigenze, ha questa volta dato buoni frutti, o almeno quelli desiderati dalla protagonista della storia, nonché autrice del libro, e la regista della pellicola.
Dal canto suo, la Doillon ne capisce il potenziale e ne rispetta gli intenti, assecondandone soprattutto il punto di vista, al quale resta fedele sino all’ultimo fotogramma utile. Come abbiamo già sottolineato in apertura, innumerevoli sono infatti le opere che hanno messo e continuano a mettere al centro del plot la Shoah e le ferite mai cicatrizzate che la accompagnano. Di conseguenza, innumerevoli sono anche i punti di vista mostrati e le prospettive scelte per rievocarne sullo schermo i fatti e i relativi protagonisti. Non che quello proposto ne Il viaggio di Fanny sia in tutto e per tutto originale, ma porta con sé un’idea ben precisa di narrazione e soprattutto un’impronta fortemente personale, che trasuda tanto dalle pagine del romanzo quanto dai fotogrammi della trasposizione. Scegliere di narrare l’odissea umana sempre ed esclusivamente attraverso lo sguardo della giovane protagonista e dei piccoli compagni di sventura dona al film un senso profondo, ma prima di ogni altra cosa un’angolazione non logora in grado di offrire al fruitore la possibilità di osservare con una lente diversa una piccola parentesi di una storia così grande e dolorosa. La regista ha, infatti, lasciato volutamente fuori campo le immagini del conflitto o quelle dell’arresto dei genitori, rimanendo costantemente con la macchina da presa puntata sui bambini, così da vivere gli avvenimenti attraverso i loro occhi. Lontani dai bombardamenti e dai brutali omicidi, Fanny e i suoi compagni di viaggio vivono sulla loro pelle la violenza dell’abbandono, il dolore per una separazione forzata e la paura di restare orfani, dell’oblio, della morte e dell’ignoto. Un mix, questo, nel quale trovano spazio anche lampi di energia positiva, coraggio e perseveranza.
Su e intorno a queste tremende emozioni i protagonisti, con gli spettatori al seguito, affrontano le tappe di un road movie che ha il sapore inconfondibile del romanzo di formazione, che si fa a sua volta veicolo di trasmissione della memoria della Shoah, anche se sempre a misura di bambino. In tal senso, Il viaggio di Fanny è “la storia di chi è costretto a crescere velocemente e il cuore del film è costituito proprio dal passaggio dall’infanzia all’adolescenza”, come ha dichiarato la stessa regista in un’intervista. Quest’ultima non è nuova ai viaggi iniziatici, visto che nel suo esordio dal titolo Et toi, t’es sur qui? aveva già mostrato sullo schermo i primi palpiti amorosi e le crisi degli adolescenti. Questo le ha permesso di maneggiare con più sicurezza, maggiori competenze e meno timori reverenziali la materia in suo possesso, anche se il peso specifico di quanto raccontato nella sua ultima fatica dietro la macchina da presa, vuoi per il contesto storico, vuoi per l’argomento, vuoi perché si tratta di una storia realmente accaduta, è quadruplicato. Fatto sta che è riuscita a non farsi sopraffare e schiacciare dalla responsabilità e dal suddetto peso, consegnando alle platee un film denso e a tratti toccante, che sa come accarezzare e allo stesso tempo schiaffeggiare il cuore dello spettatore.
Francesco Del Grosso