La turbolenta tribù del Davai Théatre è la protagonista di Les Ogres, il secondo film della regista Léa Fehner, applaudito alla 52. Mostra del nuovo cinema di Pesaro. L’autrice francese mescola all’autobiografismo l’avventura di un teatro viaggiante.
Sinossi: Quelli della compagnia Davai Théatre vanno di città in città, con una tenda in spalla e il loro spettacolo a tracolla. E mettono in scena Cechov. Sono degli orchi, dei giganti e ne hanno mangiato di teatro e di chilometri. Ma l’imminente arrivo di un bambino e il ritorno di un ex amante faranno rivivere le ferite che si pensava fossero ormai rimarginate.
Recensione: Difficile non rimanere affascinati da questa grande famiglia itinerante. Sono personaggi stravaganti e imprevedibili, spesso eccessivi, per questo affascinanti. Si mascherano e si truccano come la compagnia di un circo, ma si accampano in una città solo per mettere in scena Cechov. La loro è una vita orgogliosa del proprio nomadismo e del proprio modo di fare arte, ma non per questo più felice. Fin dall’inizio si percepisce una sottile inquietudine nei volti, nei dialoghi e nell’indifferenza verso le difficoltà che mano a mano cresce e sfocia in esplosioni di rabbia.
Léa Fehner si ispira ai suoi genitori che negli anni ’90 hanno girato la Francia con i loro spettacoli. Racconta dei legami familiari, dell’amore e dell’amicizia che ogni giorno si mescola con la finzione del palcoscenico. I problemi personali sono condizionati dalla necessità di mandare avanti lo spettacolo e la vita privata si riduce al minuscolo spazio vitale del proprio camper; appena superata quella soglia tutto diventa pubblico. La libertà del nomadismo mostra così i suoi limiti e le sue contraddizioni: il viaggiare continuamente diventa una prigione che tiene legate queste persone tra di loro, ognuna indispensabile per portare avanti la compagnia. Una strana convivenza, esagerata nelle manifestazioni di rabbia o affetto e incredibilmente affiatata sul palcoscenico.
La regista segue un crescendo emotivo, lavorando sui sentimenti e sulle emozioni dello spettatore. Un film corale in cui la camera danza letteralmente intorno ai personaggi, dando ad ognuno un tratto riconoscibile, visibile in tutte le inquadrature, incredibilmente vero. L’autrice resta addosso ai suoi protagonisti, li fa parlare, muovere, sbagliare, e gli eventi si susseguono casuali, a volte senza senso, eppure continuano a raccontare una storia. Un piccolo microcosmo imperfetto, sempre in bilico tra l’odio e l’amore.
Alessio Paolesse