Un consiglio a Dio è un film del 2011 con Vinicio Marchioni, diretto da Sandro Dionisio. Il film è tratto dal monologo teatrale “Il trovacadaveri” di Davide Morganti.
Un “trovacadaveri” compie il suo lavoro sporco – raccattare i corpi senza vita degli immigrati clandestini trascinati dal mare sulle coste del sud d’Italia – raccontando alla sua ultima preda (che lui ha soprannominato Napoleone, mettendogli “il nome di una persona importante per dargli una vita migliore”) la sua vita da cani, non molto dissimile da quella dei migranti stessi. È un Gennarino Carunchio senza alcuna consapevolezza sociale o politica, e il suo monologo – tratto dal testo teatrale Il trovacadaveri di Davide Morganti e ben interpretato da Vinicio Marchioni – fa da cornice al racconto della (non)accoglienza verso gli immigrati clandestini nel nostro Paese, corpi che “puzzano di non assistenza, di abbandono” e diventano ingombrante testimonianza di un’emergenza permanente affrontata in modo contraddittorio e conflittuale. (Paola Casella)
La figura del trovacadaveri mi ha ricordato un po’ Antigone, che vuole dare sepoltura con tutti i crismi della religione al corpo del fratello maledetto; un po’ mi ha ricordato Tobi, padre di Tobia, che si prodiga nel seppellire cadaveri abbandonati senza paura di contaminarsi (infatti per gli ebrei basta toccare un cadavere per diventare impuri); e un po’ mi ha ricordato il principe Amleto che nella vulgata, anche se non nella tragedia, pronuncia il suo celebre monologo rivolgendosi al teschio di Yorick, che nel film di Dionisio è rappresentato dal cadavere dell’immigrato morto rinvenuto sulla spiaggia di Lampedusa, che il trovacadaveri soprannomina ‘Napoleone’ per via della posizione della sua mano destra ferma all’altezza del petto.
Questo è un film senza storia proprio perché fatto di testimonianze. Infatti il senso lo si può raccontare senza problemi e non ha bisogno di essere testimoniato perché già di per sé comprensibile anche indipendentemente da me che lo comunico. Nel comunicare o raccontare qualcosa di sensato non ne va del mio stesso essere. Per questo motivo ciò che può essere testimoniato è soltanto il nonsenso. Il nonsenso può solo essere attestato – sono io che lo attesto non a parole, ma con la mia stessa vita. Testimoniare il nonsenso, poi, non significa conferirgli un qualche significato – anzi far questo significherebbe strumentalizzare il nonsenso, giustificare il nonsenso a fini di natura ideologica. Il nonsenso quindi non va oltrepassato dal/nel pensiero, ma va attestato ovvero affermato come qualcosa che resista a qualsiasi ordine di discorso che voglia appropriarsene. Testimoniare il nonsenso significa esercitarsi nel salvaguardare e nel custodire questa sua eccedenza. Questo strano film di Dionisio è intessuto di testimonianze che ci trasmettono il nonsenso in quanto nonsenso. Sono le testimonianze insensate di chi è scampato alla morte per caso ovvero senza che questo essere un sopravvissuto abbia per lui un senso. Unica cosa praticabile per questi scampati è quella di attestare e testimoniare le vite di quanti non ce l’hanno fatta. Le vite dei sopravvissuti sono insensate alla pari delle vite dei sommersi o forse ancora di più. I salvati – coloro che hanno trovato scampo – nell’impossibilità di dare un senso all’orrore che hanno vissuto possono solo testimoniarlo.
Ora questo film, che rinuncia persino alla sua riuscita estetica per testimoniare l’orrore, è un film che non è cinema, se per cinema si intende fiction cioè il cinema come finzione – anzi nel film di Dionisio ci sono addirittura dei momenti di fuori-cinema: vedi, per fare un esempio, l’inserto del cartone animato, inserito nel corpo del film in maniera del tutto illogica, quasi dadaista. Non si tratta di cinema perché qui il regista non ha voluto fare cinema sulla sofferenza e la morte di questi migranti. Infatti già il solo fatto di mettere un evento dopo l’altro, un’immagine dopo l’altra per poi farne una storia (vera o verosimile a questo punto importa poco) da raccontare avrebbe significato dare un senso al nonsenso inaccettabile ed ingiustificabile della sofferenza e della morte di questi migranti. Il film – non potendo non essere fiction/finzione, anche se finzione verosimile o addirittura vera (scusate l’ossimoro – comprensibilissimo tra l’altro) – alla fine comunque dà un senso alla realtà insensata che racconta anche per il solo fatto di raccontarla. Ma si tratta di un senso costruito e non dato. La realtà, invece, si presenta in tutta la sua insensatezza non raccontabile, ma solo testimoniabile. Così un film che voglia denunciare questa realtà inaccettabile comunque lo farebbe in un modo come minimo retorico – direbbe il nonsenso di queste morti, ma lo farebbe pur sempre attraverso immagini e frasi inevitabilmente sensate – e alla peggio lo farebbe con un tono falso perché coprirebbe come con una mano di intonaco gli abissi e le crepe dell’esistenza (per usare una espressione cara al giovane Lukacs) di questi migranti sofferenti, morti o scampati alla morte quasi per caso. Un film di denuncia riuscirebbe retorico se non addirittura falso proprio per il fatto stesso di fare racconto di queste esistenze sperse ed irredente in tal modo conferendo senso al nonsenso. Un conferimento di senso innanzitutto prima attraverso la forma cinematografica, attraverso l’arte che così sarebbe un’opera impastata di lacrime e sangue; lacrime e sangue sacrificati alla riuscita estetica dell’opera stessa. Sarebbe come mettere il belletto ai cadaveri di questi migranti per farli riuscire più fotogenici – il che è semplicemente ripugnante!
Invece questo che solo convenzionalmente potremmo chiamare un docu-film non si/ci illude di ricomporre l’infranto attraverso la forma artistica così colpevolmente estetizzando la sofferenza umana e violando la sua intrascendibilità. Infatti ciò significherebbe sacrificare il reale inaccettabile del dolore e della morte alla riuscita dell’opera che di tale strazio farebbe materiale da costruzione. Non è l’arte che deve redimere questa sofferenza insensata facendone materiale per un’opera seppur di denuncia. Sotto questo rispetto è molto significativo meditare sul consiglio a Dio che provocatoriamente ed insieme ironicamente dà il trovacadaveri: «Dio, perché dovresti resuscitare i corpi di questi poveri disgraziati; fammi fare piuttosto tredici al totocalcio» (semplifico un po’; mi scuserete). Ecco che qui viene – attraverso il preciso anche se ironico riferimento alla resurrezione dei morti – evocato il tema della redenzione.
Il film si rifiuta di diventare opera (da notare in questo senso la presenza di momenti letteralmente di fuori-cinema come l’inserto del cartone animato). Il regista ben sa che non è l’arte a poter/dover redimere la sofferenza insensata di questi dannati della terra. Dall’altra parte ironizzare (una macabra ironia) sulla resurrezione dei morti è un modo per dirci che nemmeno a Dio è da richiedere questa redenzione. Comunque il riferimento a Dio è importante perché qui rinvia ad una idea di redenzione che eccede le possibilità, le capacità e le progettualità dell’uomo così aprendo la nostra considerazione alla speranza ed alla memoria, al far memoria di tutte le volte in cui la speranza è stata disattesa. Allora, non è l’arte, né Dio a poter/dover redimere questa sofferenza – perché redimerla significherebbe dargli un senso e quindi in qualche modo significherebbe giustificarla come utile al fine di pervenire ad una conclusiva totalità di senso (un sacrificio che è stato o che sarà utile per… motivo per cui Ivan Karamazov rifiuta il biglietto di ingresso in paradiso). Se questo è vero, allora la palla passa a noi, spettatori del film. Siamo noi che pur non potendo/non dovendo redimere dobbiamo salvare (anche nel senso di conservare, conservare memoria di) questa sofferenza, questa povera sofferenza insensata così ricomponendo l’infranto sperando in quel Messia, di cui ci parla Walter Benjamin, che se arriva a visitarci lo fa passando per la porta stretta dell’istante. In questa attesa ognuno di noi è chiamato a corrispondere ad un dovere che non è in grado di assolvere, ma che per questo non deve diventare un alibi. Tutti noi siamo consegnati – anche grazie a questo film – ad un prenderci cura dell’altro imparando così a rendere tutto questo nonsenso un luogo accogliente ed abitabile.
Stefano Valente