In Sala

Segantini – Ritorno alla natura

Peccato che gli appuntamenti della Grande Arte al Cinema siano validi soltanto per due giorni! Segantini – Ritorno alla natura di Francesco Fei sarà nelle sale il 17 e 18 gennaio, e basta; non è giusto, perché sa renderci la complessità e la spiritualità (Kandinsky lo definiva il pittore più spirituale che esista) di un artista conosciuto, sì, ma non ancora apprezzato quanto meriterebbe

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Sinossi: Eccentrico, solitario, un “orso di montagna” capace di sentire nel profondo la forza magnetica delle Alpi ma anche l’energia pulsante racchiusa nelle grandi città ottocentesche. Giovanni Segantini (1858-1899) è stato uno dei più grandi divisionisti italiani, un pittore straordinario dal carattere selvaggio e irruento eppure poetico, aggraziato, scrupoloso. A due anni dalla mostra milanese di Palazzo Reale, che ha celebrato l’impressionante bellezza della sua opera troppo a lungo trascurata raccogliendo oltre 200 mila visitatori in 4 mesi, ora sarà il grande schermo ad omaggiare uno dei pittori più importanti dell’Ottocento italiano, in perenne oscillazione tra divisionismo e simbolismo.

Recensione: Peccato che gli appuntamenti della Grande Arte al Cinema siano validi soltanto per due giorni! Segantini – Ritorno alla natura di Francesco Fei sarà nelle sale il 17 e 18 gennaio, e basta; non è giusto, perché sa renderci la complessità e la spiritualità (Kandinsky lo definiva il pittore più spirituale che esista) di un artista conosciuto, sì, ma non ancora apprezzato quanto meriterebbe. O, peggio ancora, ricordato solo come paesaggista, sottovalutando il suo contributo al simbolismo europeo.

Nel film è Filippo Timi a prestare la voce, il volto e il corpo al grande pittore. Ottima scelta, quella di un attore che sa passare con facilità dalla leggerezza dei Delitti del bar Lume ad un ruolo così intenso, irrequieto e nel contempo di profonda serenità, come emerge dalle lettere scritte in diretta. Si sente il suono del pennino sulla carta, del suo respiro, mentre scorrono densissime le parole. Testi brevi, che testimoniano il dolore dell’esilio, e la volontà di non soccombere.

Giovanni Segantini nasce ad Arco, in Trentino, che ha dovuto lasciare a soli sette anni dopo la morte della madre. Non vi farà più ritorno, e cercherà insistentemente nella sua breve vita la stessa luce delle sue montagne. Ecco perché i suoi trasferimenti in Brianza e poi in Engadina (Svizzera). A Milano, bambino, abita in un abbaino ed è costretto a salire sul tavolo per vedere il cielo, a spicchi. Ricorda la poesia di Eugenio Montale, I limoni, nella quale il poeta, a Milano, dice che “la luce si fa avara-amara l’anima”. Montale richiamava poi alla memoria sensazioni legate alla Liguria e al suo mare; Segantini rievoca l’apertura e la severità delle montagne, dopo aver passato persino tre anni in riformatorio. Infanzia e adolescenza sembrano proprio tratte da un romanzo di Charles Dickens!

Gli anni della vita adulta vanno sicuramente meglio, anche se caratterizzati da difficoltà economiche, fino a quando non viene riconosciuto anche all’estero (oltre a Kandinsky, Klee e Klimt lo apprezzavano moltissimo) e dai  problemi dovuti al suo spirito ribelle: “Sono diventato un artista, così sono libero”. Anche all’unione non consacrata con la sua Bice, che in quanto apolide non poteva sposare, sepolta con lui nel piccolo cimitero di Maloja. Davanti alla loro tomba c’è la scritta: “Arte e amore vincono il tempo”.  E di amore universale parlava nelle sue lettere, nonostante “il fango e la fame sul corpo” che la società gli aveva fatto conoscere.

Filippo Timi cammina per i  boschi e si sofferma ad osservare gli spazi aperti, un en plein air continuo, un ritorno alla natura costante, che è anche il titolo del trittico, destinato all’esposizione Universale di Parigi del 1900, al quale Segantini stava lavorando quando è morto, nel 1899. Si sofferma quasi ad annusare l’albero, a toccarne la corteccia, nella ricerca fisica del sentimento della vita che avvertiva in maniera intima e profonda.

Alternati ai passi e alla voce che esprimono tutta la malinconia del pittore, le testimonianze della nipote, Giaconda Segantini, dell’esperta Annie-Paule Quinsac, di Franco Marrocco, direttore dell’Accademia di Brera, di Romano Turrini, storico di Arco. Poche persone, che lo conoscono a fondo, ad evitare quel collage di interventi che in altri documentari ha effetti stranianti.

E poi i suoi quadri! Chi scrive sa che andrà prestissimo alla Galleria d’Arte Moderna di Milano per rivederli, la stessa che ha folgorato il regista Francesco Fei e lo ha fatto innamorare di Segantini.  Che ci ha mostrato tra le sue opere paesaggi mozzafiato dipinti a 2700 metri di altezza, i bianchi che abbagliano, le presenze femminili struggenti, tra il realistico e il simbolico, le maternità rappresentate in modi sempre diversi, oltre a quelle  che sembrano più tradizionali, ma tradizionali non sono.

“Oh, la mente, la mente ha montagne” recitava Gerard Manley Hopkins. Il documentario di Francesco Fei ci restituisce le alture dell’anima di un grande pittore, quelle interiori e quelle sulla tela. Lo fa in armonia,  alternando fiction e realtà, così come Segantini dipingeva soggetti veri trasfigurati sempre dal suo sguardo.

All’intensità del film-documentario contribuisce anche la colonna sonora di Alberto Turra.

Margherita Fratantonio

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