Tratto dall’omonimo dramma di Jean-Luc Lagarce, È solo la fine del mondo di Xavier Dolan narra il viaggio di un artista omosessuale della scena teatrale internazionale, che ritorna nella sua provincia natale per comunicare la propria avanzata malattia terminale alla sua famiglia, mai frequentata e vista nell’ultimo decennio.
Una comunicazione più volte procrastinata, e alla fine evitata in una partenza silenziosa, di fronte a un muro familiare di risentimenti, violenze verbali e psicologiche e, conclusivamente, di dolorosi ed egocentrici sfoghi personali, restituiti all’evidenza dei segni muti, ma ineludibili, della malattia.
Il film lavora sul tema archetipico delle risonanze simboliche della famiglia, intesa come l’insieme delle declinazioni del legame alle proprie radici familiari, contestualizzandolo nel nostro universo socio-culturale, lacerato dalla precarietà.
Nell’economia simbolica del testo filmico, il legame alle radici familiari entra in una dialettica serrata con la tematica del “terreno sociale” di appoggio e di accoglienza delle espressioni socializzanti, professionali e personali dell’individuo: sgretolandosi progressivamente questa base sociale e le sue opportunità vitali di emancipazione, nel contesto di un’apocalittica quanto sempre più sensibile e cogente precarietà, l’apologo di Dolan propone un affresco brutale dello stravolgimento dei connessi codici e simboli familiari, sotto l’egida di un dramma tabuico e di un caos generalizzato degli affetti.
Focus simbolici principali e dialettici del lungometraggio ci paiono dunque:
1) un passato prossimo ancorato alle polarità complementari e archetipiche della libertà dalle radici familiari e dell’emancipazione espressiva e vitale delle soggettività, da un lato (l’artista gay e di successo, sfuggente alla propria famiglia provinciale da anni), e, dall’altro lato, della conservazione degli stessi vincoli alla famiglia d’origine e dell’idolatria, gravida di risentimento, della loro trasgressione (i familiari dell’artista suddetto);
2) la rivelazione della precarietà del mondo e del sociale (la morte prossima della persona più libera ed emancipata della famiglia) quale agente di destituzione dell’idolo della libertà dalle radici familiari; un’idolatria su cui paradossalmente si coagulavano e guadagnavano forza, fra desideri più o meno latenti, invidie e risentimenti, anche gli stessi equilibri più reazionari e conservativi di tanta famiglia, successivamente al Sessantotto (la scena familiare provinciale e gravida di proiezioni ostili investenti il protagonista, con la quale quest’ultimo si confronterà al suo ritorno nella provincia natale);
3) il dramma dell’“indicibilità” di queste rivelazioni e destituzioni di idoli, assurte simbolicamente ad agenti “sovrumani” di caos in relazioni affettive familiari complesse e conflittuali, e di rottura delle summenzionate coordinate simboliche del passato prossimo (l’impossibilità di avviare un dialogo franco ed empatico, fra fratelli storicamente tanto distanti, sulla precarietà della condizione del malato, e, soprattutto, l’impossibilità tabuica di comunicarla e di sentirla proferire da parte del totem latente e fantasmatico degli equilibri familiari della storia).
Francesco Di Benedetto