Charles A. Tibbs (un indimenticabile Arch Hall Jr.) tiene in ostaggio, assieme all’afasica fidanzata (sono due assassini in fuga), tre sventurati insegnanti che, dopo aver attraversato la California’s Antelope Valley, per andare a sostenere i Dodgers a Los Angeles, hanno avuto la malasorte di fermarsi presso una rimessa abbandonata per far riparare l’automobile. La storia è tutta qui, eppure The sadist (A bruciapelo, 1963) ha una forza drammatica e visiva non comune, che esaspera lo spettatore, lo irrita, laddove l’eccesso della situazione messa in scena, grazie alla performance magistrale del protagonista – da segnalare il travolgente incipit con la dichiarazione di guerra di Tibbs e il primissimo piano dei suoi occhi, che già da solo vale il prezzo del biglietto -, pare sempre sull’orlo di risolversi, ma, al contrario, si assiste a una escalation di violenza, benché i due malviventi siano due idioti, in balia di un vacuo rancore causato dalla loro condizione di reietti. Ma è proprio in ciò che consiste il merito dell’interpretazione di Arch Hall Jr.: la sua ira lo acceca a tal punto da fargli perdere completamente la ragione; il suo delinquere non risponde ad una logica economica, neanche ad un disegno premeditato di vendetta nei confronti di una società che lo ha bandito, dato che sebbene sia crudele, in realtà, a ben vedere, c’è in lui una svogliatezza lampante, come se non credesse mai fino in fondo a ciò che fa; è come se fosse sempre altrove, e ogni tanto riapparisse negli improvvisi picchi di violenza.
Quando la sua faccia viene per la prima volta ripresa da James Landis, coadiuvato dal celebre direttore della fotografia William Zsigmond, lo spettatore subisce una sorta di ipnosi, non smetterebbe mai di guardarlo, per i suoi tratti inquietanti e ottusi e quelle sopracciglia unite che sottolineano una palese imbecillità, la quale, dopo il primo comprensivo effetto disturbante, si carica di un’altra valenza. E’ un vero e proprio carnefice – un sadico -, una vittima o qualcos’altro?
Il film di Landis, liberamente ispirato agli omicidi compiuti da Charles Starkweather, che poi costituiranno anche la materia da cui saranno successivamente tratti i più celebri Badlands (1973) di Malick e Natural Born Killers (1994) di Stone, opera una deformazione della psiche del protagonista che quasi lo trasfigura, rendendolo un vero ‘idiota’, un rovesciamento speculare di quello tratteggiato nelle pagine di Dostoevskij. Chi scrive non trascura che The sadist fu un’operazione dichiaratamente commerciale, un film di exploitation, che non ebbe, tra l’altro, all’epoca della sua uscita nelle sale, un particolare successo, però, forse anche a discapito delle reali intenzioni dell’autore (Landis scrisse anche la sceneggiatura), il risultato finale è quello di aver delineato una sorta di ‘santo’ al contrario, che, come accadeva nel capolavoro di Abel Ferrara, Il cattivo tenente, esercita un tentativo estremo, radicale, di preghiera, producendosi nei gesti più atroci. Si badi che qui non ci si parametra con il dato di realtà (gli omicidi effettivamente compiuti dal pericoloso serial-killer Charles Starkweather) ma con la traduzione cinematografica, con il conseguente ‘tradimento’ che un resoconto inevitabilmente compie, sia per la volontà di spettacolarizzare che per l’inconscia rilettura effettuata della personalità di chi si è macchiato di tanti efferati delitti.
Landis pare colto quasi da un senso di colpa, quando sul finire del film condanna il colpevole a una pena esemplare (che non riveliamo, ovviamente), eticamente ed esteticamente assai incisiva, per ricondurre nei binari del politicamente corretto qualcosa che forse, nella sua interessante versione, gli era sfuggita di mano, nel senso che a parte l’aberrante e gratuito atto di violenza commesso nei confronti dell’inerme e più anziano insegnante, per il resto del film non si parteggia, come dovrebbe naturalmente accadere, per i due ostaggi, ma si cerca di capire cosa si agiti nella mente dello spietato assassino, e, dunque, in un certo, si riesce a empatizzare con lui, esattamente come succedeva per l’esecrabile Bad Lieutenant interpretato da uno strabiliante Harvey Keitel.
Insomma, questo A bruciapelo risulta un oggetto misterioso, affascinante, più profondo di quanto potrebbe di primo acchito apparire, in grado di provocare vive suggestioni, sebbene alcuni lo abbiano obliterato frettolosamente come film non degno di particolare attenzione.
Opium Vision prosegue nel suo illuminato corso editoriale recuperando una rarità (il master è ottimo, e l’audio come sempre comprende la versione originale e quella con il doppiaggio d’epoca, con sottotitoli opzionabili; negli extra è presente anche un’interessante presentazione del film a cura di Michele De Angelis) che non mancherà di suscitare il più acceso interesse tra i cinefili, che apprezzeranno senza dubbio l’accurato lavoro di selezione realizzato dalla nuova, brillante etichetta.
Luca Biscontini