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Film da Vedere

Dolls di Takeshi Kitano: una tragedia senza dramma

Potremmo definire Dolls come una tragedia senza dramma: ecco da cosa deriva il senso di distanza e straniamento che si avverte guardando il film. Non c’è azione, non c’è dramma, ma c’è tragedia. La tragedia del destino e della sua inesorabilità. Solo la storia degli “amanti legati”, vagabondi senza meta, non finisce come le altre – perché? Un episodio ci dà la risposta

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Trama

Tre storie di passioni, tratte da Monzaemon Chikamatsu, considerato lo Shakespeare giapponese e con il contributo rilevante dello stilista Yohji Yamamoto. Takeshi Kitano abbandona i toni forti dei suoi film precedenti e realizza un’opera innovativa ed affascinante che sembra aprire una nuova fase nella carriera dell’attore-regista.

Un film davvero commovente per la sua bellezza! Tuttavia qui non scatta nessun meccanismo catartico di purificazione delle o di liberazione dalle passioni (il riferimento è naturalmente alla catarsi di cui parla Aristotele nella Poetica). Questa è solo una delle varie precisazioni che dovrò fare nel corso di questa nota. Tutto quello che dirò intorno a questo film, infatti, sarà un tentativo di comprensione che è consapevole della distanza e della diversità che ci separa dal Giappone e dalla sua cultura.

Bellissimo è il prologo. Chiamo così l’episodio proiettato prima dei titoli di testa, quindi prima del film vero e proprio. In questo prologo la macchina da presa riprende una sorta di teatro dei pupi o di burattini giapponese dove le bambole raffiguranti l’amato e l’amata sono sostenute e dirette nei loro movimenti dalle braccia e dalle mani di animatori che noi chiameremmo i “pupari”. Ora quella del burattinaio e del burattino è in Occidente una chiara metafora di quello che chiamiamo destino.

Nota. É importante sottolineare che questa metafora non va letta come se dovesse simboleggiare il rapporto del regista con i suoi personaggi. La regia di Kitano, infatti, non si pone da un punto di vista sovraordinato rispetto alla storia che racconta e agli attori che la mettono in scena; punto di vista che, invece, assumerebbe il puparo rispetto alle vicende che le sue marionette rappresentano. Anzi, Kitano si colloca allo stesso livello dei suoi personaggi – rispetto ad essi ed al loro destino egli non è mai indifferente, ma sempre partecipe.

Il prologo, però, vuole alludere al fatto che questo film affronterà la questione del rapporto tra l’uomo ed il suo destino. E questo destino in prima battuta è un destino di incomunicabilità.

Nella prima storia lui lascia la sua amata per unirsi in un matrimonio d’interesse a una donna che non ama. Poco prima delle nozze lui viene a sapere che la sua innamorata ha tentato di suicidarsi; non c’è riuscita, tuttavia sembra essersi ridotta ad un inespressivo vegetale. Allora lui torna da lei, ma lei ormai non può più neanche riconoscerlo. Lui comunque fa la sua scelta: prendersi ugualmente cura di lei fino a condividerne la sorte in un peregrinare continuo e senza meta, legati entrambi a una corda che li lega insieme proprio nella loro radicale incapacità di comunicare – li unisce lasciandoli divisi.

Nella seconda storia un capo della Yakuza in gioventù abbandonò il suo onesto lavoro in fabbrica per entrare nel giro della mafia giapponese e per questo decise di lasciare la sua fidanzata. Un giorno in un parco seduto al fianco della sua amata le dice che vuole lasciarla per non tornare più e lei, mentre lui si allontana, gli grida che, comunque, sia che lui fosse sia che lui non fosse tornato lei lo avrebbe sempre aspettato al parco su quella stessa panchina con un pasto caldo pronto per lui. Ora, oramai vecchio, il gangster ritorna al parco e sulla panchina dove abbandonò la sua fidanzata proprio lì la ritrova, vecchia oramai anche lei che, devota, aspetta l’arrivo del suo amato. Dopo aver contemplato più volte la scena, il vecchio decide di sedersi su quella panchina senza presentarsi per quello che realmente è, ma lasciando credere alla donna di essere un estraneo che semplicemente vuole farle compagnia e condividere con lei quel pasto caldo preparato per una persona che mai potrà ritornare.

La terza storia racconta di un ragazzo giapponese tanto preso dalla musica e dalle canzoni di una giovane pop-star da diventarne un fan accanito. Lui sognava di poterla un giorno incontrare, ma prima di riuscirci la cantante rimane vittima di un incidente stradale in conseguenza del quale resta sfregiata al volto; così si ritira dalle scene a vita privata, senza voler più vedere nessuno dei suoi ammiratori. Saputo ciò, credendo che non sarebbe più valsa la pena vedere, se non avesse più potuto guardare il volto del suo idolo, il giovane prende un taglierino e si acceca. Poi va a trovare la cantante nella sua casa in riva al mare e viene da lei eccezionalmente accolto solo perché cieco. I due, fatta amicizia, passeggiano insieme in un campo di rose che lei vede mentre il ragazzo ne sente soltanto il profumo.

In ogni storia il destino di incomunicabilità tra i vari personaggi sembra regnare incontrastato dando luogo soltanto a ‘drammatici’ paradossi. Quando lui e lei si possono incontrare, non si incontrano – quando, invece, si incontrano purtroppo non si possono più incontrare. Tanto inesorabile, tanto inevitabile è questo destino: proprio quando sembra che i due in qualche modo si rincontrino il tentativo di recuperare ciò che sembrava definitivamente perduto naufraga. Il cieco viene investito lungo la strada; il gangster viene ucciso di ritorno dal parco dove aveva appena pranzato con la sua antica innamorata. Il destino è inevitabile, è inesorabile: per quanto si faccia per sfuggirlo esso si compie sempre e comunque.

Se questo è vero, dovremmo, allora, parlare di tragedia? Credo che relativamente a questo film la parola sia fuori luogo, non perché in esso non vi sia “qualcosa” di “tragico”; ma perché qui non c’è “dramma”, non c’è “azione”, non ci sono “soggetti” che attivamente ed eroicamente lottino contro il destino e ne vengano poi sopraffatti e “bellamente” travolti. Allora potremmo definire Dolls come una tragedia senza dramma: ecco da cosa deriva il senso di distanza e straniamento che si avverte guardando il film. Non c’è azione, non c’è dramma, ma c’è tragedia. La tragedia del destino e della sua inesorabilità. Non c’è possibilità di salvezza, non c’è possibilità di scampo come la fine dell’ammiratore e del gangster stanno a dimostrare. Eppure la storia degli “amanti legati”, vagabondi senza meta, non finisce come le altre – perché? Un episodio ci dà la risposta.

I due “amanti legati” nel loro vagare lungo una strada innevata in pieno inverno si imbattono in degli abiti stesi su un filo teso tra due pertiche: sono gli abiti sfarzosi e colorati che vestivano le bambole, le marionette viste nel prologo. E i due che fanno di fronte a questa visione? Prendono gli abiti delle due maschere e li indossano per poi continuare a vagare nella neve. Che fine faranno? Cadranno da un dirupo e sospesi sull’abisso resteranno penzolanti dalla corda che li unisce e che è rimasta impigliata ad un ramo. Ecco che il filo che lega il destino-burattinaio ai suoi burattini si spezza. Ma come si è spezzato il filo? Come hanno “vinto” il destino i due poveri amanti? Non contrapponendovisi per andare incontro ad una fine bellamente eroica – non hanno rifiutato le maschere che rappresentavano il loro destino di impossibili amanti, uniti proprio da questa impossibilità. Hanno, invece, preso su di sé queste maschere e queste vesti. Hanno vinto il loro destino perché lo hanno scelto, hanno deciso liberamente di incarnarlo. Qui forse risuona il motto nietzscheano “ciò che fu, io volli”. Assumendo le vesti di bambole hanno spogliato il destino; indossando il costume della marionetta hanno spezzato il filo che li incatenava al loro destino ed ecco… per un momento, anche se per un solo momento – mi riferisco alla scena in cui lei mostra il ciondolo a lui con un sorriso, scena veramente emozionante – hanno rischiato di incontrarsi, si sono sfiorati? Forse… chissà? Certo, si è aperta una breccia nel loro destino: precipitando nella scarpata, appesi al filo del loro amore che finalmente li unisce. I fili del destino sono tagliati ed i due innamorati si affacciano sull’abisso. Prendendo su di sé il loro destino lo hanno vinto. L’unico modo per arrivare a vedersi l’uno nel volto dell’altro senza infingimenti è paradossalmente indossare la maschera nel segno di quella speranza così ben espressa dai versi di una canzone di Francesco De Gregori: “E dimmi quante maschere avrai e quante maschere avrò […] Ovunque sarai sarò”. Per guardarsi in volto bisogna indossare la maschera sperando di arrivare almeno a sfiorarsi: tutte le volte per una; una volta per tutte (per usare un’espressione di Carmelo Bene).

In conclusione il destino dei due amanti appesi alla corda che li lega tenendoli sospesi sull’abisso non può non ricordarmi Ninetto-Otello e Totò-Jago, gettati dallo spazzino Modugno nell’immondezzaio, che con gli occhi al cielo si stupiscono davanti allo spettacolo delle nuvole, davanti alla straziante e meravigliosa bellezza del creato! (mi riferisco naturalmente al finale di Cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini).

Stefano Valente

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