La filmografia riportata in calce raccoglie nove lungometraggi di fiction del cinema statunitense ed europeo-occidentale, realizzati tra gli anni 1975 e 2015.
A nostro avviso, essi tematizzano due modelli di discorsi culturali che evidenziano criticità estreme sul piano della relativa forza e tenuta simboliche, e in modalità opposte e speculari l’uno rispetto all’altro.
Il primo modello è enucleabile nei quattro lungometraggi realizzati tra gli anni 1975 e 1999, e vede tematizzato, nei discorsi culturali in questione, un tendenziale azzeramento delle dimensioni dell’elaborazione, della codifica e dell’indirizzo simbolici dei fenomeni materiali, anche dolorosi, dell’“esperienza” sociale, culturalmente rimossi nei segni seduttivi e immersivi della simulazione del benessere (è questo il caso delle forme discorsive, elusive e autoreferenziali, della postmodernità, quali fonti di un logoramento progressivo delle cornici simboliche e degli istituti politico-civili propri della modernità più avanzata)[1].
Il secondo modello è invece enucleabile nei film realizzati negli anni Duemila, e viene a connotare discorsi culturali ebbri di una temperie simbolica “fanatica” e al tempo stesso precaria, mossi convulsivamente dal senso di urgenza di istanze del sociale da estrovertere e tematizzare.
Tema latente e ricorrente, complessivamente delineato dai quattro lungometraggi della filmografia realizzati nell’ultimo quarto del secolo trascorso (Il Casanova di Federico Fellini, Scarface, Velluto blu, Eyes wide shut), è a nostro avviso la rimozione della scena più dispotica e ferina del sociale, operante nella cultura coeva dai discorsi seduttivi e omnipervasivi della simulazione del benessere: l’Occidente tardo-novecentesco postmoderno[2].
Cifra estetico-formale e simbolica, comune ai quattro film, pare pertanto l’ironia testuale con cui, in lungometraggi così intensamente riflessivi sulle forme simboliche della postmodernità, vengono lasciate trapelare lateralmente le dinamiche rimoventi di tale universo culturale; una figura, quella dell’ironia, connotata politicamente quale spazio di apertura dei discorsi all’espressione implicita di una dissidenza al sistema socio-antropologico cogente.
La summa politica dei discorsi concettuali portati avanti ironicamente nei quattro lungometraggi ci sembra data nel film cronologicamente più tardo: Eyes wide shut.
Temi centrali dell’ultimo lungometraggio di Kubrick sono difatti la seduzione diffusa e sensuale dei segni della scena sociale[3] e la violenza ineffabile del potere quali realtà entrambe elusive ma protagoniste complementari dell’universo culturale coevo: entrambe realizzanti dei paradigmi costitutivi della postmodernità.
È un film che porta avanti il suo discorso filosofico in forme perturbanti, aprendo lo spettatore alla dimensione concettuale, latente e non manifesta all’interno della cornice dello spazio filmico, degli effetti efferati di realtà del contesto politico e tardo-capitalistico messo in scena sulla stessa carne sociale (l’orrore impalpabile della violenza del denaro e del sesso sui ghetti del corpo sociale: dalla prostituta contagiata dal virus dell’HIV ai riti orgiastici e sacrificali degli alti potentati politici e borghesi newyorkesi); una dimensione politico-concettuale che gioca riflessivamente con il motivo formale, centrale nel testo, dell’elusività dei segni (seduttivi o perturbanti) del visivo.
Gli altri tre lungometraggi si concentrano su questioni più schiettamente metalinguistiche, lavorando sugli universi formali e autoreferenziali della cultura espressiva postmoderna e tendendo a rarefare l’impatto “realista” della tematica delle ghettizzazioni e delle esclusioni efferate prodotte da quella stessa cultura espressiva nella coeva carne sociale.
Nella fattispecie, l’opera citata di Fellini si focalizza sul tema dell’immaginario sessuale e consumista della cultura espressiva sua contemporanea, e in particolare sulla dimensione simbolicamente dispotica dei dispositivi sessisti, sadico-voyeuristici e “derealizzanti” di una società ampiamente mediatizzata, tematizzando con forza, nell’incubo latente di un femminile che smascheri il maschilismo e l’autoreferenzialità delle fantasie omnipervasive del maschio, la figura dell’ironia quale orizzonte politico-formale di dissidenza nei confronti dei discorsi socio-culturali dominanti[4].
Scarface lavora invece sul paradigma culturale postmoderno della seduzione delle superfici declinandolo in primis in quello dell’ossessione del corpo, tra l’acutizzazione dei suoi valori espressivi e sensori (fino alle esperienze-limite e perturbanti della cocaina e del sangue) e uno scenario artificiale ed edonistico di “epidermidi” lussureggianti da imbrattare con secrezioni e fluidi organici (Miami e la sua gente); la dimensione orrifica della messa in scena, congiuntamente a un tale apparato di simboli, apre il testo a una dimensione concettuale ironica rinviante agli effetti duri e imprevisti di realtà, sul piano dell’autolesionismo e della brutalità dell’esperienza materiale, di quello stesso feticismo autoreferenziale delle superfici.
Velluto blu si orienta infine sul tema concettuale della regressione simbolica e ferina dei codici pervasivi di una cultura espressiva che tende ad azzerare l’apprezzamento del valore della “differenza”, considerata sia da un punto di vista simbolico-denotativo (la fusione di polarità simboliche inconciliabili nel flusso indistinto televisivo), sia quale alterità umana da rispettare e da non violare (l’egotismo e la pulsione sotterranea di morte della società mediatizzata postmoderna, da leggere qui come il portato di quella stessa rarefazione strutturale delle cornici simboliche con cui poter mettere a fuoco, distinguere e investire di senso il reale).
Referente intertestuale e latente, delineato complessivamente dai lungometraggi della filmografia realizzati negli anni Duemila, ci sembra la diffusione contemporanea di discorsi culturali a tenuta simbolica fragile, sempre più fanaticamente attratti da un’estroversione dei temi delle istanze materiali e simboliche dell’esperienza sociale e sempre più proliferanti sulla stessa scena sociale (mediante in primis il medium reticolare di internet), quali:
- il discorso pornografico, quale modello linguistico-formale del “tutto accessibile, consumabile e manifesto” nella società di internet: un’estroversione nel Web e nel sociale dei codici della rappresentazione pornografica, che eccede di gran lunga i meri spazi mediali deputati al porno in senso letterale, diventando una fonte massiva di traumi e tabù regressivi, tendenzialmente irriducibile alle logiche formali del logos psicanalitico della latenza e della decostruzione del discorso inconscio e pulsionale della sessualità (i segni ridondanti di una sessualità femminile voyeuristicamente esposta allo spettatore maschile di Nymphomaniac, incapaci strutturalmente di tradursi in logos e in interpretazione, e fonte di una sotterranea ansia di castrazione per lo spettatore in questione)[5];
- i discorsi congiunti della crisi sociale e del risentimento politico-generazionale, operanti allo snodo storico dell’attuale crisi economica, amputati della possibilità di una guida e di un orientamento simbolici da parte del pensiero critico e dell’impegno comunitario generoso delle soggettività più progressiste (lo sfondo dei risentimenti giovanili di una crisi endemica del tessuto sociale, non rielaborabile né rappresentabile dalla regista d’impegno civile di Mia madre, coniugato, nel film di Moretti, al motivo diegetico della morte della madre-docente liceale e al suo correlato simbolico dell’eclissi materiale degli spazi socializzanti deputati alla formazione delle nuove generazioni)[6];
- i discorsi estremistici del risentimento ideologico-sociale di un mondo contemporaneo segnato in profondità dall’inquinamento simbolico e materiale della globalizzazione e dal senso di precarietà dell’esperienza comune di vita (l’ambientalismo della madre migrante di Hungry hearts, quale vettore ideologico di un risentimento e di un’asocialità che funesteranno gli orizzonti privati di emancipazione del personaggio stesso);
- i discorsi proiettivi e iper-soggettivanti della simulazione della Storia (e delle sue narrazioni gravide di senso) operanti nella società del Web (l’invenzione di una Storia inesistente ad uso e consumo di un’infartuata morente, e il dipanamento delirante del suo racconto mediante i supporti disponibili della tecnologia, in Good bye, Lenin!);
- il discorso spettacolare del terrore (le messe in scena eclatanti e traumatiche della paura, allestite e recitate dal personaggio di Joker nel film Il cavaliere oscuro)[7].
Nelle economie concettuali dei film in questione, ogni discorso culturale summenzionato simula l’adempimento di una “funzione simbolica” particolare, tematizzando, di per se stesso, l’urgenza di istanze materiali o simboliche del sociale, per lo più frustrate nel contesto politico-culturale contemporaneo:
- la funzione gnoseologico-democratica della libertà di accesso, da parte delle comunità, all’informazione e alla realtà politico-sociale del mondo; una libertà e una penetrazione cognitiva del reale che, lungi dall’essere rafforzate e implementate su scala internazionale mediante i nuovi dispositivi digitali, tendono a naufragare nella cecità e nei tabù profondi di una cultura segnata dal fanatismo ottuso del “tutto evidente e comprensibile”, oltre che in un mare magnum di sadismo predatorio e voyeuristico nei confronti di un’alterità (e di una carne sociale) da “consumare” (Nymphomaniac)[8];
- la funzione civile della sfera pragmatica delle rivendicazioni dei diritti sociali, amputata delle fondamentali intermediazioni, simboliche e socializzanti, dell’“educazione” e di un pensiero e di un dibattito critici degli intellettuali (Mia madre);
- la funzione ideologica, quale vettore sociale di coalizione comunitaria e di mutamento dello status quo politico, regredita a mero universo simbolico di riferimenti senza una possibilità di sbocco e di incisione in una vita pubblica sempre più liquefatta, con effetti di ritorsione nefasti nel privato (il risentimento ambientalista della madre psicotica di Hungry hearts, sfogato sintomaticamente sul proprio stesso figlio neonato);
- la funzione simbolica degli investimenti di senso nella Storia da parte delle grandi narrazioni, tradotta in una simulazione personalistica delle narrazioni stesse (Good bye, Lenin!);
- la funzione anarchica della messa in questione dello status quo politico-sociale, tradotta in uno spettacolo che ne ricalchi le latenti logiche formali (Il cavaliere oscuro)[9].
Percorsi estetico-formali e simbolici comuni di questa seconda sezione della filmografia sono:
- un approccio allegorico e figurato con cui i testi tematizzano i propri diretti referenti socio-culturali contemporanei, che si pone concettualmente in antitesi all’“ebbrezza realista” dei discorsi summenzionati (alle loro istanze simboliche di un’estroversione pronta e fanatica di temi e bisogni dell’esperienza sociale coeva);
- un lavoro straniante dei testi su vecchi paradigmi e serie culturali[10] (richiamati tramite un materiale più o meno vario e definito di riferimenti), che finisce per portane le logiche semantiche e simboliche interne a un punto di rottura e di metamorfosi, al fine di tematizzare i discorsi summenzionati slatentizzando la loro dimensione di perdite o derive simbolico-culturali.
Francesco Di Benedetto
Filmografia
Il Casanova di Federico Fellini (1976)
Scarface (Brian De Palma, 1983)
Velluto blu (David Lynch, 1986)
Eyes wide shut (Stanley Kubrick, 1999)
Good bye, Lenin! (Wolfgang Becker, 2003)
Il cavaliere oscuro (Christopher Nolan, 2008)
Nymphomaniac (Lars Von Trier, 2013)
Hungry hearts (Saverio Costanzo, 2014)
Mia madre (Nanni Moretti, 2015)
[1] Per un approccio prettamente sociologico alle questioni del “postmoderno”, si veda Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002.
[2] Per quanto concerne le summenzionate logiche culturali “rimoventi” e la nostra istanza di tematizzarle a margine di alcune opere celebri e integrate a pieno titolo in quello stesso humus culturale, cfr., in ambito filosofico, il noto testo di Maurizio Ferraris Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma 2012.
[3] Per una definizione del campo concettuale della categoria della “seduzione”, anche in riferimento all’epoca postmoderna, si veda Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, Milano 1997.
[4] Cfr. il nostro articolo Il cinema di Federico Fellini e la sua contemporaneità, in www.taxidrivers.it: https://www.taxidrivers.it/73407/rubriche/il-cinema-di-federico-fellini-e-la-sua-contemporaneita.html.
[5] Cfr. il nostro articolo sul film sopracitato, pubblicato su www.taxidrivers.it: https://www.taxidrivers.it/72028/rubriche/nymphomaniac-di-lars-von-trier.html.
[6] Sul tema della sensibilità diffusa della società contemporanea a un’indignazione sociale inidonea a strutturarsi in pensiero critico e in azione politica “stabili”, al di là dell’onda volatile dell’emotività, si vedano Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma 2015, e Zygmunt Bauman, Ezio Mauro, Babel, Laterza, Roma 2015.
[7] In merito a questo universo discorsivo, cfr. Piero Barbetta, La strage di Nizza e l’età psicotica, in www.doppiozero.com: http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201607/la-strage-di-nizza-e-leta-psicotica.
[8] Cfr. a riguardo Byung-Chul Han, La società della trasparenza, Nottetempo, Roma 2014.
[9] Cfr. la nota seguente.
[10] Ci riferiamo, rispettivamente, ai seguenti universi e serie culturali: la psicanalisi, quale terreno culturale di incontro fra discorso (dell’inconscio), decostruzione (propria del logos analitico) e regressione primitiva alle pulsioni “egoiche” della sessualità (Nymphomaniac); le culture socialiste del Novecento, quali orizzonti simbolici di lotta politica e, contestualmente, di socializzazione e dibattito e pensiero critici, ai fini dell’interesse comune (Mia madre); la controcultura “desiderante” del Sessantotto, i sui rapporti peculiari con la funzione simbolica del “padre” e con quella immaginaria del “materno”, le sue propaggini violente e sotterranee nel terrorismo (Hungry hearts, la sua marginalizzazione della figura simbolica del padre, e la sua negazione dell’immaginario e del materno nelle cornici “matrigne” e “necessitanti” dello spazio pubblico e familiare); il mito del comunismo (Good bye, Lenin!); la dimensione anarchica del “potere” nel sistema culturale tardo-capitalistico tra libido autoreferenziale del denaro e spettacolo autoreferenziale delle merci, rovesciata nel fanatismo della libido narcisistica dell’attentato spettacolare al benessere, nel Cavaliere oscuro.