Forse non esattamente privo di stereotipi e non particolarmente originale, l’ultimo lavoro di Justin Kelly, presentato in anteprima mondiale nella sezione Midnight al Tribeca Film Festival e proiettato nella sezione After Hours alla 34esima edizione del TFF.
Dopo aver debuttato con I’m Michael, prodotto da Gus Van Sunt e presentato al Sundance Film Festival e alla Berlinale del 2015, il giovane cineasta americano torna, nel suo secondo lungometraggio, a sfruttare un evento realmente accaduto per mettere in scena la realtà omosessuale.
Non originale ma assolutamente dotato di diversi elementi che lo rendono degno di nota e che sottolineano la particolare sensibilità di questo regista, che non si riduce alla sola tematica che tratta, peraltro si evince chiaramente la necessità di occuparsene, ma si approfondisce e si estende ad ambiti più complessi e intimi che, avendo avuto Kelly, la capacità di sdrammatizzarli utilizzando un linguaggio ironico, emergono in modo ben articolato e in sintonia con la trama, dalla rappresentazione.
Complice un ottimo cast, composto da un tanto bravo quanto sottovalutato Christian Slater, da James Franco, anche produttore del film, che aveva già lavorato con il regista nel suo primo lungometraggio, e dai meno noti ma comunque incisivi Garrett Clayton e Keegan Allen, il film ha il merito di esprimere in modo assolutamente lucido ed efficace, sotto la superficie chiara ed evidente di una realtà ormai nota ai più, alcuni degli aspetti più insidiosi e spesso meno portati alla luce che la caratterizzano. E che in particolare caratterizzano la vita di quello che è senza dubbio il personaggio più riuscito e intenso del film, il produttore di film porno gay interpretato da Christian Slater, nella realtà Bryan Kocis, assassinato da altri due produttori rivali, che con il nome della casa di produzione da lui fondata, la Cobra video, gli dà anche il titolo. Al di là dell’evento di cronaca che lo vede protagonista, è chiaro come il personaggio di Cobra e il suo stile di vita siano il focus su cui il regista sceglie di orientarsi, descrivendoli in modo particolarmente accurato e tale da comunicare lo stato di estremo disagio e di difficoltà affettive che possono portare una persona che vive la sua condizione a prendere delle strade quasi obbligate, che possono esitare e spesso esitano in situazioni ambigue, che per quanto non sempre vissute del tutto in sintonia con sé stessi, sostituiscono la condivisione e la vita affettiva che gli manca e riempiono i vuoti che la contraddistinguono.
Da ciò che viene mostrato, si evince chiaramente e si riesce a percepire con intensa carica emotiva, nonostante l’ironia e l’apparente leggerezza del registro utilizzati da Kelly, e forse per contrasto, proprio in virtù di essi, quanto possa essere doloroso lo stato di profonda solitudine in cui ci si può ritrovare, quando si vive una condizione sessuale e affettiva assolutamente naturale e spontanea che purtroppo ancora in gran parte dei casi viene rifiutata, derisa, denigrata, che porta ad essere allontanati a volte anche dalla propria famiglia o che conduce a scegliere l’isolamento per evitare confronti che per quanto si sia sicuri di sé stessi e di ciò che si sente, sono sempre penosi e difficili da sperimentare quotidianamente.
Situazioni che limitano enormemente la possibilità incontrarsi, di costruire condizioni di reciprocità affettiva soddisfacenti dove si può volere, amare e sentirsi voluti in totale libertà, e che costringono o quantomeno invogliano a ricercare l’incontro usando canali che inevitabilmente espongono al rischio di trovarsi in situazioni ambigue o addirittura pericolose, ma anche solo a vivere pur di non sentirsi soli, condizioni di vita, sociale, affettiva, sessuale, lavorativa, esasperate o forzate, che senza quella necessità frustrata e una realtà così limitata e povera non si sarebbero vissute.
Internet è certamente un terreno super-rappresentativo di questi canali, quello più attuale e diffuso, divenuto ormai il territorio più semplice attraverso il quale ritrovarsi senza esporsi, ma prima della sua esistenza gli stessi rischi si correvano frequentando locali o ambienti adibiti ad hoc, insomma sempre contesti in qualche modo di esclusione, di emarginazione, ambiti nei quali l’omosessualità è vissuta come una realtà a sé e non come parte integrante di qualsiasi altra realtà affettiva e sessuale o appartenente alla stessa condizione umana, così da far sì che i propri desideri e ambizioni, che si tratti di condivisione, di ambito affettivo o realizzazione personale, si debba adeguarli a ciò che passa il convento, e ci si trovi, se si vuole essere considerati, sentirsi importanti o quantomeno riconosciuti, ad alimentare contesti e situazioni in cui si continua comunque a non poter essere se stessi, dove la propria omosessualità, per poter essere vissuta, deve essere ostentata o deve rientrare in forzature che costringono una persona a vivere qualcosa che non le appartiene pur di avere un senso di appartenenza (si perdoni la ridondanza) rispetto a qualcosa che invece gli è proprio, rendendo possibili eventi esasperati come quello accaduto ai protagonisti della storia raccontata in questa pellicola.
L’espressione chiara di questo aspetto è ciò che rende il film di Kelly detentore di maggior pregio.
Tutti i personaggi del film interagiscono tra loro con estrema attenzione e valorizzazione di quello che è fuori da loro, del loro corpo, dei loro vestiti, quasi fossero le uniche cose che li rendono degni di riconoscimento e attenzione. Anche i loro nomi non sono abbastanza per dargli un’identità degna di essere proposta. In tutto il film più volte si fa riferimento al nome proprio che viene continuamente alterato e usato strumentalmente, e nell’unico caso in cui viene proposto quello vero, l’unico tentativo di voler mantenere la propria identità, esso resta il solo elemento di una personalità del tutto frammentata e squilibrata, totalmente asservita e dipendente dalla propria immagine e da chi possa specchiarla.
Non importa con chi si fa sesso, chi si ama, da chi si è amati, se si vuole diventare registi o attori di film porno, non importa, importa soltanto potersi sentire visti da qualcuno.
Cobra è un uomo incredibilmente triste, solo, che si è vergognato e si vergogna di quello che è, che ha bisogno di mercificarlo per poterlo vivere, che si trova a dover pregare uno dei ragazzi che filma e di cui si invaghisce, di farlo sentire voluto. Glielo dice proprio testualmente a un certo punto, davanti alle sue remore a estendere la collaborazione professionale e a cedere alle sue avance:
“Please, just make me wanted”, e il ragazzo, che lo trova del tutto normale cede senza esitazione alcuna e lo asseconda, senza che importi se lo voglia o meno davvero. Ragazzo che Cobra compra con dei regali, con la promessa di farlo diventare importante, prendendosi cura di lui, mantenendolo e che in realtà è altrettanto solo e triste, e infatti finirà a vivere esattamente nello stesso modo, rappresentandone una quasi perfetta copia.
Piuttosto apprezzabile quindi, tirando le somme, il lavoro di Justin Kelly, che, sfruttando al meglio le risorse che aveva a disposizione, è riuscito a confezionare un prodotto godibile dal gusto amaro, dispensante un senso di inquietudine che auspicabilmente possa sensibilizzare e far riflettere su qualcosa di non sempre così ovvio.
Roberta Girau