1985. Fattoria nel Midwest americano, in mezzo a sterminati campi di granoturco e bovini rinchiusi in grandi stalle. Un uomo riceve la visita della polizia locale. L’intera famiglia di suo fratello è stata sterminata all’interno della propria abitazione, unica sopravvissuta la figlia maggiore Jane, coperta di sangue, con un rasoio in mano, rannicchiata in un angolo e sotto shock.
Inizia con un prologo fulminante l’ultimo film di Ed Gass-Donnelly, Lavender, thriller ad alta tensione, con diversi colpi di scena e un doppio finale che ingloba il mostro sessuale e la storia gotica con fantasmi.
Con un’elisse temporale ci spostiamo venticinque anni in avanti e scopriamo che Jane (Abbie Cornish) è cresciuta, è sposata e ha una figlia. È una fotografa i cui soggetti principali sono vecchie case di campagna che espone in una galleria d’arte, ed è affetta da strani momenti di assenza. A causa di una di queste assenze momentanee, ha un grave incidente d’auto dove perde la memoria e si scopre che ha subito dei gravi traumi cranici per una caduta pregressa. Il suo psichiatra le consiglia di ritornare alla casa di famiglia per ricostruire il suo passato. La narrazione si sviluppa lungo il lento recupero della memoria di Jane, simboleggiata da piccole scatole bianche con un nastro rosso che racchiudono degli oggetti della sua infanzia e di famiglia. Le trova sulla soglia dell’abitazione, in mezzo al campo di granoturco, in casa, metafora di quei frammenti di ricordi che affiorano nella mente bloccata dal trauma subita da piccola.
E stilisticamente, il regista canadese utilizza una messa in scena bloccata nell’incipit, dove tutti sono colti nell’attimo dell’azione da compiersi, un fermo-immagine della scena del crimine, una fotografia sul modello di David La Chappelle, dove la macchina da presa s’insinua, muovendosi in un piano sequenza iniziale di grande effetto. Quest’idea del blocco mentale è ripetuto nuovamente nella sequenza dell’incidente di Jane, con l’automobile che si ribalta al rallentatore, riprendendo Jane in primo piano, per evitare una bambina bionda improvvisamente apparsa in mezzo alla strada.
Lavender è un’opera sulla memoria, sul trauma psichico causato da un evento violento. La mente di Jane, per difenderla dalla realtà, ha creato una serie di uscite di sicurezza, una rete di protezione, dove i ricordi affiorano sotto forma di oggetti, volti, persone che solo lei vede come alla fine si scoprirà con un à rebours. Il lento recupero della memoria è una composizione di un puzzle per lo spettatore che avviene per gradi, compresa l’apparizione dei fantasmi dei genitori e della sorella, proiezioni delle emozioni imprigionate nel subconscio che si fanno largo nella mente. E con l’aiuto del marito e della figlia, Jane riuscirà a riscrivere la verità della storia, ritrovare le motivazioni di un rapporto con uno zio perduto che, visto nell’incipit, sarà il personaggio chiave nel finale della vicenda.
Gass-Donnelly costruisce la narrazione sul personaggio di Jane lavorando su due fronti. Da un lato, a livello di sceneggiatura, distribuendo minuziosamente gli elementi di rivelazione e mescolando la suspense con la tensione horrorrifica dal sapore hitchcockiano (un po’ alla Marnie e un po’ alla Psyco, per intenderci), dettagliata e precisa nel congiungere tutti i fili e sciogliere ogni nodo (come Jane snoda i nastri rossi dai pacchetti trovati). Dall’altro, controllando la messa in scena, predilige le linee geometriche degli interni (le case, i corridoi dell’ospedale, il labirinto composto da balle di fieno alla fiera del paese), dove la macchina da presa segue la protagonista e si ferma un attimo prima, mostrando solo lo stretto necessario per tenere alta la tensione e passare alla sequenza successiva. Il regista non utilizza le luci e le ombre (che sono omogenee e tenui), ma lavora sul disegno dello spazio e sul movimento di Jane al suo interno, uno spazio che non è solo fisico, ma rappresenta quello mentale della protagonista, cosicché la macchina da presa si muove nei meandri di una realtà fittizia, e in extrema ratio si trasforma in elemento metacinematografico di quello che produce il cinema: sogni, ricordi, memorie, immagini, fantasie.
Lavender, a conti fatti, è un film appagante nella sua messa in scena e Gass-Donnelly si rivela un regista che sa utilizzare bene la macchina cinema per creare sogni (incubi) a occhi aperti.
Antonio Pettierre