La giovane Kanitha si aggira in una Phnom Penh caotica, sognando la musica pop e vivendo con una madre oppressiva, che la vorrebbe vedere accasata, e un padre morente. I suoi sogni a occhi aperti le fanno prima perdere il lavoro come cameriera in un locale notturno e poi come receptionist in un albergo. La ricerca della felicità è un momento vissuto durante l’infanzia con il padre e la ragazza farà di tutto per rivivere quell’epifania infantile perduta nella memoria.
Opera prima del giovane Douglas Seok, nato negli Usa, ma di origini sudcoreane (attualmente vive e lavora a Seul), il regista dirige un film diviso in dodici capitoli (o tracce), dove la musica moderna cambogiana è la colonna sonora della pellicola. Agli episodi che compongono la fabula principale, Seok include delle sequenze tra l’onirico e il metafisico: così abbiamo una cantante fasciata in un vestito rosso che si esibisce tra le rovine di un antico tempio khmer, danzando tra pilastri e colonne, o in posizioni plastiche poggiate ai portali in pietra che incorniciano la vallata sottostante; oppure riprese del mare in lunghe sequenze con carrellate orizzontali; o ancora sovraimpressioni digitali di diverse immagini tra il mare, le piante e Kanitha da ragazzina o da adulta.
Le dodici “tracce” appaiono come dei pezzi musicali di un album per immagini, dei mottetti visivi, che vanno a comporre una piccola storia di una sognatrice di fronte alla perdita del padre, e quindi della libertà dell’infanzia, metafora quasi di un intero paese come quello cambogiano che si è risvegliato adulto (la sua occidentalizzazione capitalista), ma che sogna i fasti di un passato remoto (i resti dei templi di una civiltà ricca e sfarzosa).
Detto questo, a voler essere buoni, sembra proprio poca cosa da un punto di vista contenutistico e anche velleitario, oltretutto inserito in una forma leziosa e artificiosa come la suddivisione in capitoli e la partizione della pellicola in “Giro a sinistra” e “Giro a destra”, che non hanno un valore oggettivo se non quello di realizzare forzatamente un esercizio intellettualistico un po’ onanista. Anche l’utilizzo di un montaggio cosiddetto sperimentale composto di immagini sovraimpresse che vorrebbero dare spessore artistico al film in realtà risulta quantomeno superfluo e appesantisce la visione.
Insomma, più di un’ora di noia con materiale appena sufficiente per un cortometraggio, per una direzione pretenziosa di un regista che si crede già autore senza ancora esserlo.
Antonio Pettierre