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34 Torino Film Festival: A Lullaby To the Sorrowful Mystery di Lav Diaz (Festa Mobile)

Questa volta, quel gigantesco autore che è sempre stato e che continua ad essere Lav Diaz sceglie la storia del suo paese (che ci appare palese e inequivocabile quanto gli stia infinitamente a cuore) quale soggetto di questa ennesima dimostrazione della sua straordinaria capacità di percorrere con grazia smisurata le corde del fortunato spettatore che non si fa spaventare dalla forma apparentemente ostica che caratterizza le sue opere

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Niente raggiunge la profondità del dubbio.
Niente raggiunge la profondità dell’orrore.
Quello che ho visto è la complessità dell’animo umano.
Quello che ho visto è l’oscurità dell’animo umano.”

Sono le parole pronunciate da Gregoria De Jesus alla fine del film, rappresentandone il fulcro, il nucleo caldo proposto, testimoniato e avvalorato a più riprese, attraverso molteplici modalità di espressione nel corso di tutte le otto ore della sua durata.

E noi abbiamo il privilegio di vederlo, dopo essere stato proiettato e aver vinto l’Orso d’Argento a Berlino, presentato nella sezione Festa Mobile al TFF 2016.

Questa volta, quel gigantesco autore che è sempre stato e che continua ad essere Lav Diaz sceglie la storia del suo paese (che ci appare palese e inequivocabile quanto gli stia infinitamente a cuore) quale soggetto di questa ennesima dimostrazione della sua straordinaria capacità di percorrere con grazia smisurata le corde del fortunato spettatore che non si fa spaventare dalla forma apparentemente ostica che caratterizza le sue opere, facendole vibrare e risuonare in perfetta sintonia con le sue immagini, con i suoi personaggi, con la natura, la musica, le canzoni e le poesie che costituiscono i componenti di un flusso vivo e profondo che attraversa gli occhi, penetrando oltre  sino a raggiungere gli ambiti più profondi dello spirito.

Avendo scelto un tema storico ed essendo la storia per definizione un racconto, questo lavoro è necessariamente molto più narrativo rispetto alla modalità di rappresentazione cui il regista filippino ci ha abituato, senza per questo perdere nemmeno un briciolo della consueta poesia e delle atmosfere pregnanti che è riuscito a creare in maniera più astratta nelle opere precedenti.

Questo aspetto ha fatto storcere il naso ad alcuni dei suoi fan più puri e ortodossi, che pur senza arrivare a disprezzarlo (sarebbe umanamente impossibile), lungi dal vederla come un’evoluzione, o meglio come una versatilità nello scegliere modalità di messa in scena alternative all’occorrenza, vi hanno individuato una sorta di rinuncia anche se parziale alla propria identità in qualche modo non sempre facilmente accessibile e un adeguamento ai canoni cinematografici più convenzionali, associandolo al sempre maggiore consenso riscosso negli ultimi anni e attribuendolo con più o meno sentita delusione a un tentativo di trovare dei compromessi tra la propria audacia e singolarità e il gradimento da parte di una fetta maggiore di pubblico e critica.

Ora, si potrebbe obiettare che al di là del fatto che quella astrazione e quella rarefazione sono comunque fortemente presenti e pervadono tutto il film come sempre, semplicemente, per questioni di necessità nell’occuparsi di un contenuto specifico, non si esauriscono in esse i canali di rappresentazione, ma Lav Diaz li alterna, li combina e li fonde in maniera perfettamente fluida con elementi dialogici e narrativi comunque estremamente diluiti (basti pensare alla durata del film), indispensabili all’efficacia del prodotto finale.

Quindi, attraverso la delineazione di diverse figure simboliche che l’hanno vissuta, alcune realmente esistite, altre romanzate, egli si muove sullo sfondo della rivoluzione per la liberazione delle Filippine dalla colonizzazione spagnola avvenuta tra il 1896 e il 1897, per raccontare, dopo aver fatto lunghe ricerche, e come ha dichiarato, averlo desiderato per tanto tempo,  la sofferenza e i soprusi subiti dalla sua gente, nell’obiettivo di trasmettere tutta la frustrazione di un popolo nel trovarsi continuamente privato della propria identità, soggiogato, dominato e represso dalla prevaricazione da parte delle forze che si sono successivamente insediate nel suo paese, prendendone il potere.

È possibile identificare due filoni narrativi che ripercorrono il contesto storico di riferimento e mediante i quali Lav Diaz riesce nel duplice intento di raccontare il passato del suo paese e di farlo non accontentandosi di enunciarne i fatti ma cogliendone l’intimità e rapportandolo a dei concetti esistenziali inerenti la complessità umana che gli appartengono profondamente e in un modo o nell’altro, anche nell’indefinitezza e nell’esiguità di dialoghi, hanno sempre fatto parte della sua poetica.

Così come in altre opere, queste idee Lav Diaz le trasmette attraverso le canzoni, le lettere scritte ad amanti lontani, attraverso le poesie, e in questo caso, come in altri (accade sia in Melanconia che in The woman who left) li fa affermare anche verbalmente in modo più diretto dai suoi personaggi o li rappresenta metaforicamente senza darne una spiegazione esplicita.

Quindi, vi sono due piccoli gruppi di persone in viaggio, che vagano per i sentieri di un paese triste, il primo, che comprende Gregoria De Jesus, cammina alla ricerca di un uomo, suo marito Andrés Bonifacio, emblema della ribellione delle ingiustizie subite da un popolo intero, una ricerca fallita in partenza, portata fino alla disperazione, fino alla perdita del senno pur di non rinunciare a sperare che qualcosa possa cambiare, che non sia tutto come sembra; e il secondo si muove nel tentativo di metterne in salvo un altro, Simoun, simbolo invece del tradimento, dell’egoismo, della rabbia e dell’odio che possono portare una persona a rinunciare ai propri principi, alla fiamma che peraltro ha posseduto e continua ad accenderlo sino alla fine.

Entrambi sono  provati dalla consapevolezza di ciò che sta accadendo intorno a loro, entrambi costretti a fare i conti con la realtà e in ognuno di essi vi è almeno un membro che è stato capace di azioni vergognose e deplorevoli, palesando il fatto che nonostante si faccia fatica d’accettarlo e forse anche a concepirlo, nonostante vi sia chi non partecipa alla rivoluzione perché non in grado di uccidere qualcuno, vi siano delle persone che non riescono a tenere una pistola in mano, che non sono in grado di lasciar morire un uomo sofferente ma sia per loro istintivo curarlo, chiunque sia e qualsiasi cosa abbia fatto, di qualsiasi nefandezza si sia reso responsabile, nonostante tutto questo, esista la cattiveria, l’egoismo, l’oscurità, che siano aspetti che fanno parte di ogni essere umano, che ognuno di noi possa esserne travolto e agire in loro virtù, che nessuno ne sia immune e che niente possa preservarcene.

Così Lav Diaz insiste sull’eterno conflitto tra bene e male, ribadendo continuamente il fatto che il male sia parte integrante della vita, che non se ne possa prescindere o liberarsene.

La violenza non risparmia nessuno, fa parte dell’essere umano, è difficile accettare la verità”
“Nella vita siamo tutti degli strumenti, la crudeltà è dentro tutti noi, siamo tutti uguali.”

Lo ripete come un mantra, quasi a volersene convincere lui stesso, affermandolo ogni volta che gliene si presenta occasione e non che i fatti gliele facciano mancare. Ma nello stesso tempo c’è qualcosa in lui che non ci sta, e per quanto ci faccia i conti e la realizzi non è disposto ad accettare una realtà così impietosa senza spiegarsela e senza lottare, e, comunque sia, individua e riconosce una speranza.

In entrambi i gruppi l’elemento negativo, quello deprecabile, non lo è mai del tutto, è sempre pervaso dal rimorso e dal senso di colpa, ha la necessità di confessare quello che ha fatto, forse anche per liberarsi la coscienza, ma comunque percepisce le sue azioni e la sua negatività come un peso, chiede perdono, è accudente nei confronti di chi gli sta vicino e desidera di non aver fatto quello che ha fatto. Non è violento o cattivo a priori.

E soprattutto le persone che stanno con lui o con lei, pur consapevoli di cosa è stato capace, non si vendicano, non odiano, non rifiutano o aggrediscono, anzi, empatizzano, curano, perdonano. Ed è bellissimo come in uno dei tanti dialoghi  del film,  nei  quali si manifesta questo conflitto, alla fine Lav Diaz trovi la soluzione, riesca a spiegarsi il perché di quella oscurità che a tutti appartiene.

Il poeta Isagani parla con il suo compagno di viaggio, Simoun:

“C’è un mostro in tutti noi.”
“Mi devo fidare di lei?”
“Sono ancora umano”
“Di che tipo?”
“Come te.
L’oscurità si è impadronita di me, la rabbia ha preso il  sopravvento, il dolore mi ha divorato”

La rabbia ha preso il sopravvento, il dolore mi ha divorato.

L’uomo avrà anche le sue zone oscure, le sue parti buie, potrà anche diventare cattivo, ma non accade a caso. Non accade che il male si manifesti come un demone, come se improvvisamente si diventasse dei mostri. Avviene quando c’è molto dolore, quando c’è molta rabbia, un dolore e una rabbia che accecano, che ostruiscono l’accesso alla propria anima, e tolgono la possibilità di provare empatia e compassione. Questo accade.

E infatti, più volte si esprime la natura dell’essere umano di farsi delle domande e più volte, davanti all’impotenza di non trovare delle risposte, il responso è sempre lo stesso:

“Cerchi una cura che non esiste. Non hai paura di essere senza speranza?”
“Sono un essere umano, è ovvio che cerco risposte.”
“Non hai speranze”
“Prima o poi le troverò”
“Provo pietà per te.
“La tua anima si è persa. È quella che dovresti cercare”

E ancora, tra Isagani e lo zio, nel meraviglioso finale su una delle spiagge in bianco e nero più belle e potenti rappresentate dal cinema, con un rumore del mare che nell’ultima mezz’ora lo si sente dentro e rimane lì per chissà quanto dopo:

“La storia si ripete, è scritto nel nostro destino? Perché non possiamo farci niente?”
“Analizza ogni movimento del tuo respiro, il tocco del vento sulla tua anima.
E avrai la risposta.”

La risposta, l’essenza, quella che impedisce all’oscurità di farsi strada, al buio di ogni uomo di vincere sulla sua luce, di coprirla, nasconderla, eclissarla fino a farla scomparire, è di non perdere mai l’accesso alla propria anima, di mantenere sempre vivo il proprio sentire anche a costo di soffrire, di non rinunciarvi mai. Questo Lav Diaz comunica con un cinema fortemente affettivo e ancora una volta regalandoci questa pellicola meravigliosa, che parla dell’uomo e all’uomo, della sua anima, del suo modo di stare al mondo e del suo rapporto con sé stesso e con i suoi simili.

E infine, quale migliore strumento, dono, virtù  dell’Arte, quale patrimonio infinitamente prezioso per accedere e rimanere sempre profondamente in contatto con la propria anima?

Il regista filippino risponde con la creazione più bella dell’uomo al suo quesito più doloroso e tormentato, senza farsi sfuggire l’occasione di omaggiare anche il cinema, in occasione di una conversazione in cui viene menzionata l’invenzione recente del cinematografo e raccontata la prima proiezione da parte di un giornalista filippino.

E poi, ancora, bellissimo, ribadisce Diaz, sempre tra Isagani e Simoun:

“Il mondo ha bisogno dell’arte, per la sua anima.
“L’arte è morta signore, L’arte è egoista.”
“L’artista potrà anche essere egoista, ma l’arte non lo è, mai.
Sono cose diverse.
L’artista che è in te non morirà mai.
Sei un creativo, scriverai di nuovo.”

Che autore enorme e ancora una volta, che grande, grandissimo film.

Roberta Girau

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  • Anno: 2016
  • Durata: 485'
  • Genere: Storico
  • Nazionalita: Filippine, Singapore
  • Regia: Lav Diaz