Ci sono attori i quali, nel corso della storia e con il passare del tempo, si elevano dal semplice ruolo di interpreti di pellicole immortali, si staccano dal loro status di divi dello star system, che pure è già molto, per tramutarsi in vere e proprie icone culturali, in monoliti indistruttibili della cultura pop mondiale di ieri di oggi e di domani. È il caso di Steve McQueen, the king of cool, l’attore fra gli attori, il volto arcigno dello stile e del divismo più autentico. Già, chi non conosce anche solo per sentito dire Steve McQueen, chi non lo ha visto imbracciare la motocicletta per scappare dalle pattuglie naziste in The Great Escape di John Sturges, chi non lo ha ammirato quale scaltro pistolero nel cult western The Magnificent Seven al fianco di Yul Brynner, Charles Bronson e James Coburn, sempre per la regia di Sturges, chi non si è emozionato nel vederlo perenne fuggiasco nel bellissimo Papillon di Franklin Shaffner e ancora chi non se lo ricorda alla guida della sua Ford Mustang nel poliziesco Bullitt di Peter Yates o rapinatore in giacca e cravatta nell’on the road Getaway! firmato da Sam Peckinaph? Tutti lo ricordiamo, è ovvio, naturale, scontato. Succede così con le icone e lui lo è tuttora un ‘icona.
Nel bel documentario Steve McQueen: The Man & Le Mans, da noi Steve McQueen: Una Vita Spericolata, in uscita in dvd il 22 novembre, si omaggiano l’uomo, l’attore, il divo, l’icona, la sua passione e il suo sogno. Una passione totale, snervante per le corse e le auto, il suo impellente desiderio di gareggiare e di sentirsi in competizione ad alta velocità, rischiando la vita, una vita che, diciamocelo, gli ha regalato molte soddisfazioni ma lo ha abbandonato troppo presto, a soli cinquanta anni a causa di un cancro ai polmoni, e, appunto, il suo sogno: realizzare il più grande film di sempre sulle corse d’auto, sull’autentico circuito di Le Mans. Un progetto insistito che gli stava a cuore più di ogni altra cosa, più della sua stessa reputazione, più del suo status di personaggio imbattibile, infallibile e immortale, un film epico, rivoluzionario, una storia di sport e virilità, dove se si correva non era per finta, lo si faceva sul serio e sul vero asfalto del Circuit de la Sarthe. Un film improntato su un realismo estremo, un omaggio al mondo automobilistico, a detta dello stesso McQueen: un’opera senza fronzoli o escamotage hollywoodiani dove il protagonista non vince.
I registi Gabriel Clarke e John McKenna si prendono quindi la briga di mostrare l’attore nel pieno della lavorazione del film, in Italia conosciuto con il titolo Le 24 ore di Le Mans, nel ruolo non solo di interprete ma anche di produttore esecutivo, il tutto fra il 1969 e il 1970, un biennio tumultuoso , esagerato, accattivante, il periodo dello splendore massimo di Steve McQueen. Attraverso ottimo materiale di repertorio, interviste e ricostruzioni di amici, parenti, su tutti il figlio Chud, e altri collaboratori più o meno vicini all’attore, i due registi imbastiscono un autentico atto d’amore che è anche un resoconto storico di uno dei massimi divi di un cinema che non esiste più, perché nessun altro oggi, ma in verità già da qualche decade, può definirsi più icona culturale quanto lo è stato e continua ad essere McQueen. Dal suo rapporto con le donne, donne che gli si buttavano comprensibilmente ai piedi, reiterato fedifrago con la moglie Neile Adams, passando per il suo scampato omicidio per mano di Charles Manson e della sua family- la notte del 9 agosto 1969 sarebbe dovuto essere ospite di Sharon Tate nella sua lussuosa villa di Cielo Drive a Bel Air- fino al suo uso di droghe e alcol. Una vita che andava di corsa quella dell’attore, proprio come una gara in automobile, bruciata in fretta ma cementata nel ricordo inossidabile di un personaggio visionario e pioniere di un modo di essere e di recitare, un uomo solo con il suo sogno, quello di mettere in piedi il più grande film di gare automobilistiche e frantumare la barriera del cinema, come la chiamava lui. Già, i due registi si soffermano molto su questo particolare della sua, chiamiamola estetica, rompere la barriera del cinema era per lui riuscire ad infrangere il trucco hollywoodiano e consegnare agli spettatori un spettacolo puro, fatto di vero sudore e autentica fibrillazione. Non importava più recitare, tanto è vero che la sceneggiatura del film non è mai stata terminata, praticamente si andava avanti per sensazioni ed emozioni, non c’era un copione, c’erano la vita e la corsa, la corsa e la vita e fra queste due esperienze, svariate telecamere posizionate un po’ ovunque sul circuito, un regista, prima il burbero Sturges poi sostituito dal misconosciuto Lee H. Katzin e una mega produzione incontrollata e incontrollabile. Un caos nel caos emotivo dell’uomo e del personaggio.
Steve McQueen: The Man & le Mans si tramuta quindi in un essenziale documento che osanna e rende giustizia al pensiero e all’estetica di un divo ammaliante, crepuscolare, un pilota, un cineasta e un attore che voleva lasciare un segno indelebile nel mondo del cinema, i due registi sono ben consapevoli di quanto intorno alla figura di McQueen aleggi mito, sensualità e possanza culturale ma non fanno nulla per alimentarle, casomai le assecondano, impossibile non farlo, si affidano a delle testimonianze, a dei racconti a delle immagini, eppure sanno bene quando e come focalizzare il punto, si soffermano su un’interiorità abilmente celata e su quanto la sua figura pubblica, alla fine, abbia finito un po’ per deteriorare il suo stesso spirito, la sua stessa voglia, la sua stessa resistenza, la sua onestà; diceva Steve: non me ne intendo molto di arte o di musica, posso dirvi solo quello che mi piace. Non amo molto leggere, ho letto solo un libro in vita mia, un libro su Alessandro Magno e c’è una frase che mi è rimasta impressa: ho conquistato il mondo ma non ho conquistato me stesso. Una frase di un divo tormentato che ha lo stesso valore di un malinconico epitaffio.
Manuele Bisturi Berardi