Moralità e amoralità, bontà e malignità, castità e carnalità, ma tutto ciò potrebbe essere racchiuso nel connubio sacro&profano, vecchio come il cucco, ok, ma pur sempre accattivante. Un intreccio di passioni, sensazioni e punti di vista emerge, dunque, dalla serie tv firmata da Paolo Sorrentino, appena conclusasi su Sky Atlantic, sensazioni controverse e punti di vista estremi, i quali vanno a forgiare l’affilato pensiero dell’enigmatico protagonista Lenny Belardo, interpretato da un mefistofelico Jude Law.
The Young Pope è senza dubbio una serie non tanto di difficile collocazione, quanto di difficile connotazione e non potrebbe essere altrimenti visto chi presenzia dietro la macchina da presa. Un racconto che fin da subito entra in un’orbita del tutto inusuale per i canoni del serial nostrano e tenta di elevarsi dalla normale e consueta tradizione televisiva, approcciando, così, verso un linguaggio prettamente più libertino, spregiudicato e, se non proprio autoriale, quantomeno personale, sfaccettato e riconoscibile come qualsivoglia lavoro porti la firma del regista partenopeo. Perché ebbene sì, un lavoro di Paolo Sorrentino, che piaccia o non piaccia, lo si riconosce all’istante, un po’ come negli anni ‘70 era possibile riconoscere ad orecchio un riff di chitarra di Jimmy Page da uno di Keith Richards o da un altro di Eric Clapton. Questo per dire che quel che fa Sorrentino è senza dubbio distinguibile, griffato, se possibile, il suo stile prende prepotentemente il sopravvento, se ne frega un po’ di tutto: modi, mode, consuetudini, irrompe sullo schermo con la necessaria sfacciataggine che un autore, più o meno tale, dovrebbe possedere e marcia dritto verso un’estetica narrativa che è pura immagine, pura bellezza formale, ma anche assenza e presenza. Assenza di una vera trama, per esempio, è stato così anche per il tanto vituperato La Grande Bellezza, film colpevole di aver vinto l’oscar e dopo il quale criticare il regista sembra essere diventata una moda del web; già, The Young Pope una trama tangibile non ce l’ha, la serie si sviluppa tutta sui personaggi e sull’ambientazione, vere presenze del serial, sulle dinamiche e i caratteri dei protagonisti, procede nell’asfissiante ma al tempo stesso luccicante cornice vaticana e crea un universo quasi parallelo, nel quale la Santa Sede ne diventa fulcro e punto focale. Da Lenny Belardo, Papa giovane, eletto al conclave perché apparentemente manovrabile ma che si rivelerà, invece, un autentico demonio di machiavellica memoria, un misterioso uomo di (non) fede, conservatore, reazionario e poco incline a cerimonie e rapporti umani, al segretario di stato Angelo Voiello, interpretato da uno straordinario Silvio Orlando, figura più politica che ecclesiastica, tifoso del Napoli, astuto manovratore e consapevole anima grigia che espia le proprie pene accudendo un ragazzo disabile con il quale si confida e si purifica, passando per Suor Mary, intelligente e sobria consigliera papale, figura materna di Pio XIII, interpretata da un’affidabile Diane Keaton, il tormentato monsignor Bernardo Gutierrez, interpretato da Javier Càmara, dedito alla bottiglia e particolarmente sensibile al problema della pedofilia all’interno della chiesa, fino ad arrivare al personaggio di Michael Spencer, impersonato da James Cromwell, cardinale ormai anziano, influente ma costretto a sottostare a Lenny Belardo di cui è padre spirituale.
Certo, fra questa manciata di caratteri c’è chi spicca, riuscendo a suscitare maggior interesse o, a dirla tutta, a rubare leggiadramente la scena, un po’ come succede con il Voiello di Orlando, superficiale , cinico eppure umanissimo personaggio, forse il più plausibile, e chi non buca del tutto, e qui ci riferiamo all’importante, ma troppo marginale, crepuscolare Spencer di Cromwell. E poi, e poi c’è lui, il Pio XIII di Jude Law, strafottente, santo e maligno, un Papa consapevole della propria beltà, che sfila e fa l’occhiolino al pubblico, si mostra così sugli affascinantissimi titoli di testa – faceto sfottò della chiesa sulle note del classico All Along The Watchtower di Bob Dylan, rifatta strumentalmente dai Devlin -, ossessionato dal mito, dalla curiosità, dal mistero, un servo di Dio senza fede, del quale si autoproclama successore in terra, un ayatollah cattolico, tabagista e pieno di misteri, un gran sacerdote individualista con uno sfrenato culto della personalità. Tant’è questo Pio XIII, impersonato da un Law mefistofelico a metà, per modi e sembianze, fra il giovane Udo Kier e Terence Stamp, sorretto da modi eleganti che celano un’ira (di Dio) soffocata dalla sofferenza verso un abbandono mai superato, quello dei genitori hippie che lo lasciarono in orfanotrofio alle cure della, allora, giovane Suor May. Questo Papa, il Papa giovane di Sorrentino è, appunto, vuoto e sofferenza, personalità e rabbia, delitto e castigo, punisce coloro che lo intralciano e fa sparire chi mette in discussione la sua unica, sovrana sacralità: che fine ha fatto Tonino Pettola, il contadino con le stigmate? Un despota d’altri tempi, pronto a riportare il clero alle origini, in barba a popolarità e consenso, due elementi di cui tenta di spogliare la sacra romana chiesa.
Paolo Sorrentino fa quindi di questo show quel che un abile regista dovrebbe fare del proprio materiale: lo amalgama, lo fonde e lo diluisce, lo identifica con uno stile vero e proprio, porta avanti un discorso servendosi di una relativa linearità narrativa; alcune puntate sembrano, infatti, alquanto scollate fra loro, altre vanno come un treno, altre ancora non lievitano abbastanza, ma nonostante ciò fanno tutte parte di un percorso che non sempre può ammiccare o soddisfare a pieno. Sorrentino, per la pomposità spesso autoreferenziale delle proprie opere, riflette non poco il suo Lenny Belardo, i due si somigliano, se il personaggio vuole una chiesa a sua immagine e somiglianza, il regista fa della propria opera un riflesso puro della sua personalità, per certi versi invadente, a tratti antipatica, diciamo pure altezzosa, ma in perenne conflitto con l’insana voglia di alzare il tiro e suscitare polemica e sdegno, eccitazione e noia, come accade anche in The Young Pope con il suo fitto stuolo di estimatori e un’altrettanta barricata di denigratori. È sempre così con l’autore de Il Divo – citiamo questo titolo proprio per democristianità, visto quanto possiede ormai il potere di mettere d’accordo un po’ tutti, dal più accanito fan al più convinto critico: c’è chi si lascia trasportare e chi rifiuta il suo mondo grottesco e sui generis, non si va di corsa nel linguaggio filmico di Sorrentino, tutto ha bisogno di tempo, molto spesso per non arrivare a nulla, e non sempre si può dire riuscito, ma c’è sempre un discorso estetico e disincantato preponderante, i suoi personaggi hanno un linguaggio e un portamento, gli ambienti vengono inquadrati con sofisticata accuratezza – non dimentichiamoci del fido Luca Bigazzi alla fotografia – spesso anche solo formale, accuratezza ormai identificabile in un vero e proprio marchio di fabbrica, vezzi che identificano uno stile e il modo di raccontare di un autore che prende spunto dal cinema alto, per essere alle volte anche un po’ pacchiano e un po’ trash. La prima immagine di The Young Pope, da questo punto di vista, è già pacchianissima: vediamo Belardo emergere da un mucchio di neonati piazzati davanti la basilica di San Pietro, immagine che fin da subito ci strizza l’occhio, ci bisbiglia, ci schernisce, ma il punto è che non ha paura di farlo: è trash, è esagerata, è pacchiana, sì, lo è, ma chi se ne frega. È fiction, è spettacolo prima di tutto, è divertimento o noia, ma pur sempre intrattenimento. Il regista si prende la briga di creare e stabilire un immaginario che non per forza deve risultare plausibile, piuttosto indimenticabile che sia per bellezza o per bruttezza. Come Voiello con una sfilza di mascherine del Napoli Calcio per il suo iPhone o, sul finire del quarto episodio, una suora che balla suadente, in una delle stanze vaticane, accompagnata dalle note di Senza un perché di Nada, a conferma di quanto detto poc’anzi.
Il cinema di Sorrentino si conferma, quindi, fonte di discussione, nel bene e nel male. The Young Pope, nel corso dei suoi dieci episodi, ha suscitato polemiche e lodi, ha acceso dibattiti, ma in questa Italia si accendono micce per molte cose sciocche, anche per uno spinello fumato in prime time da un personaggio fittizio, quindi, figurarsi, si tratta di una routine conclamata. Noi siamo convinti che questa serie non sia avulsa da difetti, ne ha, come ogni cosa, e l’ultima puntata non ci ha chiarito le idee in merito. The Young Pope risulta ancora molto misterioso, controverso, inafferrabile, affascinante. Il mistero che il giovane Papa ha riportato intorno alla chiesa è il mistero di cui ancora si parlerà, probabilmente lo si citerà, aspettando una seconda stagione da criticare o esaltare.
Manuele Bisturi Berardi