Il terzo lungometraggio del promettente Antonio Campos si apre con il personaggio di Christine Chubbuck (una magnifica Rebecca Hall) che finge di intervistare l’allora presidente Richard Nixon, poco dopo lo scandalo Watergate. Interrotta da Jean (Maria Dizzia), operatrice di camera e assistente di studio, Christine inizia a chiederle se il suo annuire alle risposte dell’intervistato non fosse troppo empatico, ed è proprio l’empatia uno dei punti cardine di questa straziante storia vera.
1974. Il passato di Christine non è così chiaro. Nativa dell’Ohio e trasferitasi a Boston, successivamente lascia il Massachussetts per Sarasota, in Florida. Trentenne, abita con la madre Peg (J. Smith-Cameron), dall’atteggiamento giovanile e in perenne conflitto con quello più austero della figlia (ancora vergine). L’unica ragione di vita per la telegiornalista è la sua rubrica dedicata ai temi sociali della piccola comunità, presso la WLXT TV, e in lotta per il tanto agognato scoop in modo da ottenere la promozione verso Baltimora. Ma le saranno preferiti l’anchorman George Ryan (Michael C. Hall) – di cui Christine ha una cotta non corrisposta – e l’incaricata allo sport Andrea Kirby (Kim Shaw), in più la sua amica Jean le sta soffiando visibilità agli occhi Bob (Tracy Letts) responsabile del network. Seguono violenti liti fino a quando Christine non si rasserena grazie a George, ma il 15 luglio, appena cominciata la diretta televisiva, Christine si spara alla testa.
Campos ha ricreato un dramma toccante di una donna schiava del mezzo televisivo e, purtroppo, afflitta da gravi disturbi mentali. Christine ama il suo lavoro, ci mette passione, vuole crescere professionalmente perché è tutto quello che ha. Il suo unico scopo nella vita è quello di dedicarsi agli altri attraverso l’uso di microfono e telecamera, non esclusivamente per mero esibizionismo. Le ragioni sono sincere, cristalline, l’arrivismo è solo funzionale al fatto che Baltimora sarebbe l’unico incentivo per allontanarsi dalla madre, in realtà semplice vittima della depressione cronica della figlia. Christine, però, ha pure il problema di una ciste ovarica; una volta tolta le viene detto che le probabilità di avere figli sono scese drasticamente. E così anche il desiderio delle maternità le viene negato, oltre all’amore stesso a causa della sua fatica a rapportarsi con l’altro sesso. L’unica soluzione è il suicidio: potente ricordo macabro di una figura che ha dato tutta se stessa al giornalismo. The show must go on, riportando il Diana Christensen pensiero di Quinto potere.
Campos, da sempre interessato a temi inerenti l’instabilità caratteriale (Afterschool e Simon Killer), è abilmente riuscito a mettere in scena una storia vera senza peccare di fronzoli e pettinature leccate, complici un’accuratissima ricerca scenografica (dall’abbigliamento all’oggettistica) e una regia secca, diretta, in piena linea con l’epoca degli anni Settanta, dove la paranoia ha trovato la sua culla più comoda. Così come Christine Chubbuk ha trovato in Rebecca Hall la sua perfetta reincarnazione, ogni tanto sopra le righe, ma le si perdona tutto perché l’empatia la possiede veramente, alla pari della solitudine che ti lascia percepire in una quotidianità troppo presa da sé, come canta Sonny Curtis in Love is All Around prima dei titoli di coda: «This world is awfully big / Girl this time you’re all alone».
Francesco Foschini