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34 Torino Film Festival: Sully di Clint Eastwood (Festa Mobile)

Sully è soprattutto un film sullo spazio e sul tempo: lo spazio della città di New York con la sua skyline, ma anche con le geometrie regolari delle sue strade invernali, mentre la macchina da presa segue Tom Hanks che corre solitario. Uno spazio in cui si racchiude l’evento imprevisto da affrontare, una geografia che solo un uomo di esperienza e conoscenza può gestire

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Nell’ultimo film del regista americano si ritrovano i temi forti del suo cinema. La storia dell’incidente aereo avvenuto sui cieli di New York il 15 gennaio del 2009 e dell’ammaraggio del velivolo sul fiume Hudson grazie alla maestria e sangue freddo del comandante Chesley “Sully” Sullenberg – salvò tutti e 155 persone tra equipaggio e passeggeri – è un soggetto adatto alle corde di Clint Eastwood. La figura dell’eroe “normale”, anzi, dell’uomo comune che sa fare bene il proprio lavoro con coraggio e onestà diventa rappresentativa nella figura del comandante Sully.

Al contrario del suo precedente American Sniper, Eastwood con Sully – pur riprendendo i medesimi stilemi e messa in scena – sceglie un punto di vista su un singolo episodio della vita di un uomo. Un episodio eclatante certo: ma come dice lo stesso Sully parlando con il suo copilota “la mia intera carriera quarantennale sarà giudicata per solo 208 secondi”, che è il tempo delle decisioni che il comandante prende dal momento che uno stormo di uccelli rovina nei motori dell’aereo al decollo e fino alla pericolosa discesa. Quello che interessa a Eastwood è raccontare una bella storia, edificante, illustrativa dello spirito americano: fatto dalle decisioni di un individuo, ma che si muove e si realizza grazie alla forza della comunità (Comunità americana nel senso alto del termine, quello che descrisse De Toqueville nel suo Democrazia in America). Infatti, se il comandante riesce con la sua esperienza, intuito e professionalità ad ammarare indenne, la salvezza di tutti si deve anche all’apparato di sicurezza e di salvataggio che scattò all’epoca e agì in soli 25 minuti. E lo stesso comandante ribadisce davanti alla commissione d’inchiesta del ministero dei trasporti che si deve alla “squadra” il merito del successo del salvataggio e se non ci sono state vittime. In Sully, Eastwood si trasforma in cantore di quella nazione e di questo spirito composto di individui che si muovono autonomamente all’interno di un sistema solidale nelle emergenze.

Ci sono anche altre aspetti interessanti nel film. Innanzi tutto la recitazione mimetica di Tom Hanks che mai come in questo ruolo riesce a disegnare le complessità emotive del personaggio Sully, i suoi dilemmi interiori, i dubbi e le certezze. Un’interpretazione che ricorda quella di Gary Cooper nel Sergente York di Howard Hawks. Sono molto belle le sequenze dove il comandante rivive le decisioni prese e le possibilità negative delle sue scelte, con la messa in scena di un paio di disastri e schianti sulla città di New York. Metafora esplicitata più volte dell’11 settembre, citata per immagini e nei dialoghi, qui viene ribaltata in un lieto fine con l’aereo che non si trasforma in strumento di morte.

Un’altra decisione felice presa dal regista americano è quello di aver scelto una narrazione frammentata, a ragnatela, con una messa in serie che utilizza flash back reali oppure immaginati da Sully e il taglio temporale della sequenza dell’incidente. La sua iterazione tra l’incipit, più volte durante lo svolgimento della narrazione, e nel finale, fornisce una puntualizzazione scopica e drammaturgica che amplia all’infinito quei pochi secondi (rappresentando così bene appunto il tempo che si ferma, che non finisce mai, durante le tragedie o davanti a un pericolo di vita improvviso). Eastwood non usa artifici, ma le basi del linguaggio cinematografico e in particolare un montaggio alternato tra lo sviluppo del tempo presente e il passato o tra le telefonate a distanza tra Sully e sua moglie. Certo, abbiamo il manicheismo dei componenti della commissione che indaga sull’incidente in sequenze molto ordinarie e che in qualche modo dovrebbero creare tensione emotiva per contrastare l’eroe Sully, riconosciuto pubblicamente come tale. Ma un altro aspetto che Clint Eastwood mette in evidenza è il confronto uomo-macchina, dove il primo risulta vincitore, sempre smentendo simulazioni, calcoli ingegneristici e la commissione stessa. Nel finale, durante l’interrogazione davanti alla commissione, riusciamo a vedere per intero la sequenza dell’incidente: ma essa viene messa in scena, mentre tutti ascoltano la registrazione della scatola nera della cabina di pilotaggio con i dialoghi tra i piloti e la torre di controllo. Il cinema in questo caso diventa strumento di rappresentazione dell’immaginazione attraverso una pista sonora. Un altro elegante elemento della pellicola utilizzato all’apice dello sviluppo narrativo.

Sully è soprattutto un film sullo spazio e sul tempo: lo spazio della città di New York con la sua skyline, ma anche con le geometrie regolari delle sue strade invernali, mentre la macchina da presa segue Tom Hanks che corre solitario. Uno spazio in cui si racchiude l’evento imprevisto da affrontare, una geografia che solo un uomo di esperienza e conoscenza può gestire; il tempo invece è quello racchiuso in 208 secondi del disastro aereo, a sua volta racchiuso in 95 minuti di film e inglobato nella memoria collettiva di una città e dei sopravvissuti, come una matrioska composita e lineare, dove tutto si espande e allo stesso tempo si concentra. Sully da questo punto di vista è un’ode alla saggezza dell’individuo che riesce a controllare e gestire in equilibrio tempo e spazio.

Antonio Pettierre

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