Santiago del Cile, oggi. Un adolescente di nome Jesus vive con il padre Hector, in un rapporto difficile, fatto di incomprensioni e dell’assenza della madre, morta quando lui era piccolo. Jesus si trascina con gli amici tra prove e contest di street dance, sballi drogati e alcolici, girovagando solo o in compagnia di altri tre amici per la città di giorno e di notte.
L’incipit di Jesus in qualche modo è interessante (e si lega, in un movimento circolare su se stesso, con il finale) e dà la cifra stilistica di tutta l’opera. Scorrendo i titoli di testa, assistiamo alla performance di danza della crew, di cui il giovane protagonista è un componente, durante una gara. Intervallando inquadrature strette e in primo o primissimo piano, con la musica intradiegetica assordante, con i titoli bianchi su sfondo nero silenziosi, il regista compie due operazioni: da un lato ci fornisce subito un senso di straniamento visivo che c’introduce nella vita del ragazzo; dall’altro, la cinepresa non si staccherà più dal protagonista, in pedinamento continuo di Jesus e delle persone che gli stanno intorno, intervallando a volte con inquadrature fisse (in particolare quando il ragazzo si confronta con il padre Hector).
Jesus non lavora e non studia con grande preoccupazione del padre. Una vita senza particolari passioni, ma vissuta tutta in superficie, concentrata su se stesso, in cui l’esperienza momentanea della ricerca si attua attraverso il sesso (ha rapporti occasionali con una ragazza nel parco e con il suo migliore amico), la droga (aspirando il gas di bombolette) e il bere alcolici fino allo stordimento.
Proprio durante una di queste scorribande notturne, incontrano nel parco un ragazzo come loro, e senza un motivo particolare compiono un atto di estrema violenza lasciandolo moribondo. La sequenza è lunga e passa da un primo momento nel cercare di aiutare il ragazzo, poi al tentativo di circuirlo da parte di uno della banda, allo sberleffo e al dileggio con foto e video con gli smarphone e infine l’aggressione contro il corpo trasformato in oggetto, in un pupazzo, su cui sfogare frustrazioni di ragazzi che non hanno un passato né un futuro.
Proprio questo evento si trasforma nella conversione che riporta al punto di partenza su una strada parallela, dove il padre diventa il personaggio principale e artefice del destino del figlio. E, come dicevamo, il finale sul primo piano di Hector, che cammina lungo una strada in montagna, è lo stesso dell’incipit, solo che sentiamo le urla disperate di Jesus mentre viene arrestato dalla polizia a cui il padre lo ha consegnato.
Alla sua opera seconda, il cileno Fernando Guzzoni mette in scena il dramma intimo di un ragazzo che è metonimia di un’intera generazione e lo confronta con la figura paterna in un mondo stanco, vuoto, ripetitivo. Se gli intenti appaiono di un certo interesse, la pellicola denuncia dei grandi limiti riducendosi a essere derivativa di tutto un certo cinema del malessere sociale giovanile americano tipico di questi anni (pensiamo ai film di Gus Van Sant oppure a quelli di Larry Clark) che non aggiunge nulla. E ci appare anche debole la motivazione politica e storica di confronto tra il Cile democratico contemporaneo (Jesus) e quello della dittatura (Hector) che non trovano nessuna giustificazione nello sviluppo diegetico né nella sua espressione visiva. Infine, la scelta della cinepresa in pedinamento (al modo dei fratelli Dardenne), se all’inizio appare funzionale, alla fine diventa una ripetizione stucchevole che mostra una ricerca stilistica tutta superficiale.
Antonio Pettierre