Il primo lungometraggio di Raffaele Verzillo (dopo il corto L’ultimo sigillo e due serie di Incantesimo) costringe lo sguardo a rinunciare ai suoi segni distintivi – globalità e simultaneità della visione – e a dividersi tra tre piani distinti. Primo piano: il coraggio. Animanera è il primo film italiano che sceglie di raccontare la pedofilia, e lo fa in modo onesto e lineare. Ci si chiede dove il regista abbia trovato animo e risolutezza, e gli si dà atto di un’operazione pregevole negli intenti, che si propone – come racconta lo stesso Verzillo – di rendere la pedofilia un problema sociale, qualcosa da non nascondere: il dribbling dell’omertà è il primo passo per la crescita. Secondo piano: il film.
La sceneggiatura realistica, ma piena di cadute, disattenzioni, improbabilità e movenze che non si definiscono ridicole solo per rispetto del tema; la recitazione approssimativa, dove le uniche interpretazioni degne di tale nome sono quelle del piccolo Luigi Santoro e del pedofilo Antonio Friello; le soluzioni molto sopra le righe (gabbie metaforiche e bestie umane) che, a livello teorico, dovrebbero giustificare la differenza tra un film e un documentario; tutto porta lo spettatore a rimpiangere amaramente qualsiasi fiction tv, tutto sembra tristemente convergere su effetto boomerang – allontanare la percezione della realtà (il problema pedofilia) e quella delle immagini (che dovrebbero quantomeno essere pertinenti rispetto al problema).
Terzo e ultimo piano: non si spara su un’opera prima. Ma soprattutto, nonostante l’imbarazzo, l’utilità sociale è salva con l’iniziativa Foyer aperti, che consente alle associazioni antipedofilia di svolgere attività informativa nelle sale in cui si proietta il film.
Annarita Guidi
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