Festival di Roma

Festa del Cinema di Roma: Train to Busan di Yeon Sang-ho (Selezione Ufficiale)

Nonostante abbia riscosso un successo non indifferente di pubblico, soprattutto di quello connazionale, e sia indubbiamente un film dalle qualità tecniche discrete, a rischio di andare un po’ controcorrente, non si può evitare di considerare Train to Busan come l’ennesimo zombie-movie di matrice coreana presentato a Cannes nella sezione Midnight Screening e in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma

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Nonostante abbia riscosso un successo non indifferente di pubblico, soprattutto di quello connazionale e sia indubbiamente un film dalle qualità tecniche discrete, a rischio di andare un po’ controcorrente, non si può evitare di considerare come l’ennesimo zombie-movie di matrice coreana presentato a Cannes nella sezione Midnight Screening e in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma, oltre a non apportare veramente niente di nuovo nel panorama cinematografico, né di genere, né nazionale, né globale, sia un prodotto abbastanza povero che vive di rendita nei contenuti e che per il resto risulta essere abbastanza scontato e banale.

Ci si trova davanti a una sorta di via di mezzo tra Snowpiercer e The Walking Dead, entrambi in brutta copia, con in aggiunta tutte le manifestazioni e l’enfasi esclamativa quasi macchiettistica tipica di tanti coreani, che grazie al cielo, sono stati in grado, anche soltanto quest’anno, di produrre ben altro (si pensi a Kim Ki Duk e Kim Jee Woon, entrambi proiettati a Venezia)

Il film ha una durata assolutamente eccessiva, durante la quale si propone reiteratamente e in tutte le salse la solita dinamica dei classicissimi, ed è proprio il caso di dirlo, sempiterni zombie (infetti, a onor del vero, in questo caso) che aggrediscono gli umani solo per il fatto di trovarli sulla loro strada, e li contagiano progressivamente diventando sempre di più. Ancora. Ci si chiede se erano davvero necessarie altre due ore di creature mostruose con gli occhi bianchi che inseguono e attaccano mentre assumono posture improbabili e distorte, e squartano la carne a morsi, con tanto di schizzi di sangue. D’accordo il film di genere, ma almeno aggiungere qualcosa, qualsiasi cosa a tutto questo, sarebbe stato quantomeno opportuno e apprezzabile. Tutto ciò si inserisce in una trama narrativa collaterale che se vogliamo è ancora più banale della componente mostruosa, la quale quantomeno fa parte di un cliché ricercato e si impegna a riprenderlo e riproporlo adeguatamente. Vi è una serie di personaggi abbastanza stereotipati caratterizzati piuttosto banalmente sia nella loro individualità che nel relazionarsi tra loro, in alcuni casi appena accennati senza il minimo approfondimento, che vivono un racconto anch’esso non esattamente inedito, dal carattere ora melodrammatico, ora grossolano, scandito da frasi fatte e situazioni viste e riviste.

Abbiamo un padre egoista che pensa solo al lavoro, broker in borsa, orientato solo al guadagno; una bimba supersensibile e di gran cuore che lo porta a redimersi, che peraltro probabilmente rappresenta con la sua espressività la cosa migliore del film; una squadra di baseball con la cheerleader, i cui componenti, neanche a dirlo, vengono contagiati tutti, un barbone sporco e strano che parla da solo, un gigante buono e burbero, una donna incinta e l’immancabile cattivo, cinico e insensibile che manderebbe anche la madre a morire pur di salvare se stesso, che ovviamente resta l’ultimo zombie da eliminare prima del gran finale.

I dialoghi sono abusati, e pur esprimendo concetti anche profondi lo fanno in modo talmente poco complesso e privo di qualsiasi sfumatura o della minima astrazione da risultare sterili e poco coinvolgenti proprio quando dovrebbero esserlo. Anche la credibilità degli eventi narrati non è certo massima. Ora, non che un film che tratta di zombie debba essere credibile ma nemmeno necessariamente così caricaturale. Ve ne sono tanti in cui i movimenti, le azioni, i pesi sollevati in proporzione alla forza, sono un minimo più plausibili.

Per quanto la pellicola consti di un ritmo serrato che mantiene per tutta la sua durata, la narrazione è talmente scontata e i tempi dilatati da non suscitare un coinvolgimento emotivo, né da mantenere l’attenzione dello spettatore abbastanza vigile da creare un interesse sufficiente sull’esito del racconto. O meglio, senza voler oggettivare l’effetto che il film può avere sul singolo individuo, probabilmente tanti spettatori sono rimasti vigili e coinvolti, ma non sarebbe così esagerato dire che alla quarta o quinta lotta, qualcuno potrebbe anche cominciare ad annoiarsi.

Il film si risolleva lievemente nel finale, in particolare negli ultimi venti minuti, grazie a una scena particolarmente potente dal punto di vista visivo, che vede un’onda di infetti che si attaccano alla locomotiva di un treno, e all’epilogo narrativo, che seppur melodrammatico riesce a coinvolgere di sicuro maggiormente rispetto al resto della storia. La componente più originale e interessante di questo progetto, purtroppo non la vediamo, nel senso che Yeon Sang-ho ha girato contemporaneamente a Train to Busan un prequel dal titolo Seoul Station, che essendo costituito da un film di animazione rappresenta un terreno di gioco familiare per il regista, il quale si è affermato e ha manifestato tutto il suo talento proprio in questo campo con i suoi primi due lavori, due film d’animazione entrambi molto violenti (The king of pigs e The fake nel 2011 e nel 2013).

Insomma, pur essendo consapevoli del fatto che si tratta di un lavoro curato che viene dalla mano di un autore talentuoso, che sia un film particolarmente apprezzato e che probabilmente lo sarà anche in Italia, in particolare tra gli amanti del genere, ci si sente di dire che pur rimanendo nell’ambito dello stesso genere, si poteva fare qualcosa di meglio.

Roberta Girau

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