Sinossi: Anni sessanta: Seymour Levov, detto “Lo svedese”, è un ragazzo ebreo del New Jersey con una vita apparentemente perfetta. Tuttavia, le cose iniziano a peggiorare quando sua figlia viene coinvolta in un attentato terroristico.
Recensione: American Pastoral narra di un padre che cerca la figlia: tutta la vicenda ruota intorno a questo dramma umano, dove Ewan McGregor è il solo e unico protagonista, oltre ad essere anche il regista. Una storia monodica in cui, a volte, anche se non per molto, si sfiorano brevi momenti di poesia. La figlia, amata e perduta nel vortice del terrorismo, della dissociazione, della delinquenza forse, non c’è, e se c’è non si fa trovare. Lo spettatore è coinvolto in un reiterare di una domanda che il protagonista Seymour Levov detto “lo Svedese”, va facendo a tutti: “Dov’è mia figlia?”.
È quindi lui che cerca, è lui che soffre, e lui che si dispera: una storia a senso unico, che fa diventare tutte le altre figure solo dei fantasmi.
La Pastorale, comunque, non è quella che noi intendiamo, come pastorale ecclesiale e cristiana, non ha a che vedere con questo film e dunque neanche col libro di Roth, che per inciso ha vinto il premio Pulitzer che, com’è ben noto, è il massimo riconoscimento che può ricevere uno scrittore in America. Pastorale non è neanche la vita agreste della campagna statunitense; quindi niente visioni bucoliche, ma solo una vita di un uomo potente e benestante che abita in provincia, e che nei rinnovamenti portati dal dopoguerra e in particolare negli anni ’50-’60, periodo nel quale è ambientata la storia, perde il contatto con se stesso, non riesce a stare al passo coi tempi e quindi non è in grado di confrontarsi con la propria famiglia.
La moglie, la bella Dawn interpretata da Jennifer Connelly, e la figlia, vissuta con dignità dalla brava Dakota Fanning, sono lontane mille miglia e, nonostante la ricchezza e il potere, lo sfacelo avanza. Archetipo di tante famiglie anche italiane in quegli stessi anni in cui le separazioni furono l’anticamera dei futuri divorzi. Il film però non riesce a narrare questo dramma fino in fondo, rimanendo a volte come in superficie e rimandando sempre l’inevitabile tragedia.
La maschera, pur bella dell’attore, resta un po’ fissa durante tutto il film, anche se a volte raccontare il dolore di un padre che non riesce a riportare a casa una figlia, che, anche se viva, è come se fosse morta, riesce ad arrivare a qualche momento di vera commozione.
Anche durante la conferenza stampa, l’attore, che non si concede molto, sembra turbato quando ribadisce che chi ha dei figli sa che l’amore per loro è più grande di tutto, e chiunque si sarebbe comportato così. D’altra parte, lui, che nel film è chiamato, lo svedese, si adombra quando gli chiedono della sua origine scozzese e di come questa interviene nella sua professione. Per inciso non si sa bene che interesse si abbia a continuare a designare il protagonista chiamandolo Lo svedese, forse nel libro può avere un qualche significato di reiterazione letteraria, ma sinceramente non si capisce bene perché questo soprannome sia così puntigliosamente ripetuto. Senza che il fatto rivesta la minima importanza nella vicenda. Ci si rifà forse al carattere degli svedesi, alla loro presenta freddezza? Perche di freddezza il personaggio ne ha da vendere. Una freddezza che si stempera solo nell’accorata ricerca della sua sbandata figlia, che non ha nessuna voglia di confrontarsi con un padre che non riconosce, una madre fatua e mondana e che alla fine ama anche poco.
La storia raffigura dunque, geometricamente, esattamente due linee parallele, che, come tutti sanno, non s’incontrano mai, anzi forse sono tre, visto che anche la moglie di lui sembra rappresentare un’altra linea che se ne va per la sua strada fatta di ricerca di una felicità a volte effimera e di facciata.
Si sente nella scelta del regista novello, che in questo caso è, com’è noto, anche l’attore principale, un’accorata voglia di proteggere e di amare, ma sembra sempre arrivare tardi. La figlia è dispersa in una storia più grande di lei, che prevede terrorismo e distacco da quella vita sociale e ‘per bene’, tipica del sogno americano, e non solo di quello. È uno stile che agli inizi degli anni ‘60 ancora imperversava dovunque, pronto a essere scardinato dal ’68 e dalle lotte di classe. Ma qui non si parla neanche di quello, il sociale e le sue problematiche sono solo un soggetto a latere, al margine della storia.
Non sono indagate politicamente e moralmente le ragioni di questo iato che divide eternamente un padre da una figlia, e non sono indagate nemmeno le eventuali ragioni o etica del padre e della sua società costruita sulle convenzioni e sulle regole. Continua solo per tutto il film la tragica ricerca di un contatto d’amore, perché è proprio l’amore che manca, che si desidera e che non si trova, e che forse non si troverà mai.
Nel cast: Ewan McGregor, Dakota Fanning, Jennifer Connelly, Uzo Aduba, Molly Parker, Rupert Evans, David Strathairn, Valorie Curry, Peter Riegert, Mark Hildreth. Oscura e meditativa la fotografia e la musica. Ottima la sceneggiatura di John Romano.
Alessandra Cesselon