«”Fear X ” di Nicolas Refn risulta piacevolmente spiazzante, rivelando le capacità di un autore che mostra di saper comporre uno spazio cinematografico complesso».
Per chi, come lo scrivente, non l’aveva mai frequentata, l’opera del regista danese Nicolas Winding Refn appare più che mai stimolante, e la retrospettiva dedicatagli all’interno del Tekfestival 2010 costituisce una gradita occasione per confrontarsi con il suo cinema, tutto da scoprire.
Dopo aver visionato Pusher (1996), interessante esordio dalle atmosfere crude, metropolitane, con tanto di antieroe alla maniera del Keitel de Il cattivo tenente (1992)di Abel Ferrara, Fear X (2003) risulta piacevolmente spiazzante, rivelando le capacità di un autore che mostra di saper comporre uno spazio cinematografico complesso, dove il corpo solitario di John Turturro disegna, attraverso i suoi spostamenti e le sue visioni, una geometria sconnessa, in una staffetta tra virtuale, onirico e attuale.
L’immagine che Refn ci consegna, con gli ossessivi avanti e indietro dei videotape visti e rivisti a gran velocità dal protagonista – irrimediabilmente traumatizzato dalla morte violenta patita dalla moglie, di cui cerca, senza sosta, l’assassino – è un’immagine consumata, fatalmente insufficiente a restituire l’eccesso di un evento doloroso, che sfugge al tentativo di cattura della rappresentazione. È un’immagine sfinita che si perde tra il grigio e lo scuro dei monitor della sorveglianza di un centro commerciale.
La virtualità del passato è convocata a colmare i vuoti dell’attualità del presente di Harry, attraverso le apparizioni spettrali della moglie, assenza che si fa corpo, allucinazione che predispone il gioco della dialettica onirica del protagonista con il suo doppio fantasmatico. E poi il rosso, il sangue. Le pareti purpuree dei corridoi dell’albergo in cui Harry si accinge a compiere ‘l’attraversamento del fantasma’ annunciano il pericolo mortale cui ci si rimette quando ‘l’azione’ (la ricerca del protagonista), costitutivamente parziale, si scontra con l’insuperabilità della pienezza ‘dell’atto’ (l’evento traumatico). I rimandi a Lynch e Kubrick appaiono più l’effetto collaterale di una ricerca, che un maldestro tentativo di emulazione.
Lo spazio aperto in cui si ritrova Harry-Turturro nell’ultima sequenza è il terreno dove costruire il nuovo ordine simbolico, una volta elaborato il trauma. È la didascalia che Refn inserisce per non mandare a casa lo spettatore troppo frastornato.
Per tutti gli amanti del regista danese, segnaliamo la proiezione di Bronson (2009), stasera alle 22.30, naturalmente al Tekfestival.