Ancora una volta Werner Herzog offre, attraverso una panoramica che spazia tra luoghi sparsi ai vari confini del globo, dall’Indonesia all’Islanda, all’Africa alla Corea del Nord, una prospettiva incredibilmente intensa e lucida dell’infinita grandezza di Madre Natura, di quanto essa sia appunto gigantesca rispetto a un uomo piccolissimo, che non può far altro che esserne sovrastato, subirla, cercare di sopravviverle e, nell’impossibilità di riuscire a spiegarsela o nell’impotenza di averne il controllo, farne in qualche modo un proprio culto.
In questo caso, il documentarista tedesco sceglie i vulcani quali elemento cardine da esplorare, denominatore comune ai luoghi che riprende, con i quali ci regala il solito incontro miracoloso. La loro forza, la loro spiritualità, il loro potere al contempo creativo e distruttore. E lo fa sulla base delle suggestioni tratte dal libro Eruzioni che sconvolsero il mondo del rinomato vulcanologo Clive Oppenheimer, con il quale Herzog ha instaurato un rapporto di forte amicizia che ha consentito ai due di lavorare insieme a questo straordinario progetto. Lo studioso è largamente presente in prima persona nel film, partecipando in maniera chiara e sentita alla narrazione. In ogni ambito nel quale questo fantastico regista si addentra, oltre che presentarci con la solita maestria i luoghi che ospitano i più importanti vulcani del mondo, approfondisce la rappresentazione e la integra con il rapporto di ognuno di essi con l’uomo, con le sue varie versioni più o meno evolute, a partire dalle popolazioni che abitano ai piedi di queste maestose e imponenti strutture naturali, che li vivono in maniera estremamente spirituale, creando con essi addirittura un vero e proprio dialogo nel quale il vulcano comunica loro dei segreti, e che vedono all’interno del loro magma degli spiriti che li riconoscono, per continuare con quelle che li studiano e vi fanno ricerca, e con chi, come in Corea, ne fa strumento di potere e di vanto personale.
C’è una sorta di riverenza atavica, di umiltà, da parte di Herzog e Oppenheimer, che si respira in tutta la durata del documentario e che ritroviamo in modo diverso anche negli abitanti dei villaggi che si trovano alle pendici dei vulcani, un profondo rispetto conseguente e in sintonia con la consapevolezza di tanta potenza e capacità di annientare un misero e infimo uomo con un solo minimo movimento. Lo vediamo piccolo, infinitamente piccolo, per quanto presuntuoso l’uomo, di fronte a quella forza assoluta, a quel fuoco pulsante, pur con i suoi strumenti tecnologici, con le sue misurazioni, in fin dei conti non può che ritrovarsi a raccogliere le proprie ossa friabili prima che si sbriciolino, unica traccia rimasta dopo il suo passaggio. Presuntuoso tanto da deificare un uomo sino ad annullare la propria mente, a omologare completamente qualsiasi istanza individuale, ad arrestare il progresso e l’evoluzione tanto da diventare un pixel umano uguale a milioni di altri pur di celebrare un unico uomo che lo rappresenti e gli tolga l’incombenza di autogestirsi e di scrivere la propria vita autonomamente. La stessa cosa che fa con un qualsiasi Dio. È quello che accade in Corea Del Nord, dove il potere di un uomo rappresenta l’unica forma di culto da seguire, che si illude di appropriarsi anche dei vulcani che il suo paese ospita, così come di qualsiasi cosa vi sia contenuta. Dove quella piccolezza è resa ancora più evidente dalla necessità di continua propaganda imposta, di ergere statue a grandezza quanto più esaltata possibile.
Unico piccolissimo neo, che può anche non essere condiviso, tanto che per molti altri ha rappresentato un valore aggiunto al lavoro di Herzog, seppur coerente con il resto del discorso ed essendo consapevoli del fatto che Herzog non è un regista che si serve di una narrazione lineare che prevede degli schemi e delle dimensioni fisse o prevedibili, può essere considerato il fatto che lo spazio riservato alla Corea del Nord e alle sue contraddizioni appare leggermente eccessivo rispetto al resto del racconto, nel senso che è davvero evidente tanto da fare un minimo di ombra sul focus principale del discorso, come la sua proverbiale passione si orienti a un certo punto su qualcosa che in qualche modo si allontana dalla natura e dai vulcani, come una necessità di spostare la propria attenzione su qualcosa che è troppo importante per non parlarne a fondo, l’urgenza di raccontarla indipendentemente dalla fluidità che ne sarebbe esitata. In ogni caso, un appunto assolutamente trascurabile e come detto non necessariamente biasimatile che non toglie nemmeno una virgola alla maestosità e alla pienezza di questo lavoro, con il quale come sempre Herzog dà esempio di mirabile ampiezza di vedute e della grande capacità di integrare e fondere elementi lontani tra loro per creare qualcosa di compatto e potente che arriva dritto all’occhio e al cuore dello spettatore lasciandolo interdetto, inquieto, meravigliato e appagato allo stesso tempo.
Roberta Girau