Come poteva un grande classico della suspense e della celluloide demoniaca del calibro di Rosemary’s baby – Nastro rosso a New York (1968) di Roman Polanski non generare imitazioni, considerando il successo che ha provveduto a regalargli immediatamente il suo invidiabile status?
Miscelandone l’idea di base con quella di Baby killer (1974) di Larry Cohen, il cineasta originario di Budapest Peter Sasdy – autore, tra l’altro, di Una messa per Dracula (1970) e Il cervello dei morti viventi (1973) – ricavò lo Sharon’s baby (1975) che vide la diva Joan Collins nei panni di una ex ballerina destinata a dare alla luce un bambino dotato di forza e crudeltà straordinarie, nella sua opinione a causa di una maledizione lanciatale da un nano che respinse dopo alcune avances.
Bambino che un dottore con le fattezze del mitico Donald Pleasence sottoponeva ad esami clinici, mentre una suora con quelle di Eileen Atkins si convinceva che fosse posseduto dal demonio.
Suora oltretutto sorella proprio del padre del piccolo, incarnato dall’hammeriano Ralph Bates e che provvide ad impreziosire ulteriormente un cast comprendente, tra gli altri, Caroline”Maniac”Munro e il John Steiner visto in non poche produzioni nostrane, da Roma violenta (1975) di Marino Girolami a Troppo forte (1986) di Carlo Verdone.
Lo stesso Steiner presente in un’intervista di quattordici minuti che, insieme alla galleria fotografica, costituisce la sezione extra del dvd italiano edito da Sinister Film della pellicola, non priva neppure di evidenti influenze da L’esorcista (1973) di William Friedkin e di uccisioni volte a corredare l’inquietante agglomerato, tra un impiccato e una decapitazione.
Pellicola che l’etichetta distribuita da CG Entertainment lancia insieme ad un’altra importante riscoperta: Manitù – Lo spirito del male (1978), tratto da un romanzo di Graham Masterton e diretto dal tragicamente scomparso – in un incidente in elicottero nelle Filippine proprio prima che il film uscisse in sala – William Girdler, conosciuto dai fan dell’horror soprattutto grazie ai suoi eco-vengeance Grizzly, l’orso che uccide (1976) e Future animals (1977).
Con diversi elementi che sembrano anticipare Poltergeist – Demoniache presenze (1982) di Tobe Hooper, quasi un’ora e quaranta di visione che si evolve lenta nel porre in scena una Susan Strasberg alle prese con un ammasso carnoso misteriosamente spuntatole nella parte posteriore del collo, ma che i medici escludono possa essere un cancro, in quanto dovute analisi non confermano la presenza di cellule tumorali.
Quasi un’ora e quaranta che, tempestando occasionalmente di situazioni di paura la sua prima parte, si evolve attraverso l’accrescimento di volume dell’escrescenza per concedere, poi, maggiore spazio all’effettistica e alle mostruosità dopo che si tenta perfino (ma inutilmente) di reciderla tramite l’utilizzo del bisturi.
Man mano che, tra il coinvolgimento di una sorta di esorcista indiano e la scoperta del fatto che la massa informe non sia altro che un terrificante essere allo stato fetale e pronto a venire al mondo, l’elaborato si rivela un bizzarro miscuglio di possessioni diaboliche ed entità legate alla tradizione pellerossa con inclusi un Tony Curtis chiromante ed un Burgess Meredith antropologo.
Bizzarro miscuglio corredato di trailer e galleria fotografica, come pure Horror (1963), firmato da un Alberto De Martino allora alla quarta regia – dopo un western e un paio di peplum – e che Sinister inserisce all’interno della sua collana dedicata al gotico italiano.
Immerso in una avvolgente atmosfera tempestata di tuoni e fulmini e scritto da Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi sotto pseudonimi Gordon Wilson Jr. e Jean Grimaud, un racconto di paura girato in bianco e nero e ambientato nel XIX secolo all’interno del castello dei Blackford, dove, dopo anni di collegio, una giovane e nobile Ombretta Colli (ma riportata nei credits come Joan Hills) fa ritorno accompagnata da due amici.
Castello in cui viene accolta piuttosto freddamente dal fratello Gèrard Tichy e dove trova l’ambigua governante Helga Liné alla guida della nuova servitù; oltre a scoprire che il padre, creduto morto in un incendio, è in realtà sopravvissuto e, sfigurato e in preda alla pazzia, vive in una torre.
Il padre che, riuscito a fuggire, non tarda ad iniziare ad uccidere, in quanto, secondo la leggenda, la famiglia scomparirà alla decima generazione quando l’ultima discendente (quindi, la Colli) compirà diciotto anni.
E, nell’attesa di approdare al finale a sorpresa, se da un lato si guarda in maniera evidente alle produzioni analoghe appartenenti alla cinematografia inglese, dall’altro è facile intuire che le derivazioni dall’Edgar Allan Poe riportato addirittura sulla locandina si riducono, in verità, ad alcuni rimandi a La caduta della casa degli Usher e La sepoltura prematura.
Ma non è finita, perché, a proposito di gotici sfornati nel paese degli spaghetti, un altro fondamentale recupero sinisteriano per il mercato dell’home video digitale – con la sola galleria fotografica quale contenuto speciale – è La lama nel corpo (1964), anch’esso ambientato nel XIX secolo e, in realtà, realizzato da Lionello De Felice e non dal produttore Elio Scardamaglia, come spesso erroneamente riportato.
Di poco successivo all’ottimo Sei donne per l’assassino (1964) di Mario Bava, con il quale condivide anche la presenza degli attori Harriet Medin White e Massimo Righi, un giallo a tinte fortemente horror che fa di Delfi Mauro la cognata e amante di un dottore in possesso del volto di William Berger, dedito a trapianti di organi – in un laboratorio segreto celato dentro la sua clinica psichiatrica – nell’intenzione di restituire la bellezza proprio alla donna, rimasta sfigurata in seguito ad un incidente di cui lui si sente responsabile.
Un giallo a tinte fortemente horror scritto da Ernesto Gastaldi e Luciano Martino che, quindi, guarda chiaramente al sottovalutato Occhi senza volto (1960) di Georges Franju e a Seddok, l’erede di Satana (1960) di Anton Giulio Majano, anticipando, però, determinate caratteristiche dei thriller di Dario Argento e, soprattutto, de La mano che nutre la morte (1974) e Le amanti del mostro (1974) di Sergio Garrone.
Perché, con una Françoise Prévost ricercata dalla polizia e pronta a ricattare il medico dopo aver trovato rifugio nella casa di cura ed essersi insospettita della sparizione di alcune giovani ricoverate, non manca neppure la sequela di omicidi attuati da un misterioso assassino nel corso dell’operazione, cui giovano non poco sia la fotografia di Marcello Masciocchi che le musiche di Francesco De Masi.
Francesco Lomuscio