Tony Manero è un film del 2008 diretto da Pablo Larraín, vincitore del premio come miglior film e come miglior attore al Torino Film Festival.
Santiago del Cile, 1979. Raùl Peralta è un uomo ossessionato dal personaggio interpretato da John Travolta nel famoso film; che passa gran tempo delle sue giornate ad imparare passi di danza da proporre poi ogni sabato sera in una discoteca di periferia. Lo stato di alienazione nel quale si trova a vivere il protagonista, deciso a tutto pur di poter vivere come il suo mito, lo porta a compiere crimini sempre più efferati e senza senso, che passano però inosservati. La lenta e progressiva follia di Raùl finirà per coinvolgere anche le persone che gli stanno vicine.
Non inganni ne il titolo ne la trama, perché Tony Manero del cileno Pablo Larraín è un bel pugno nello stomaco, un film dalla bellezza algida, percorso da un atmosfera febbrile che serve a farci cogliere l’essenza degenerativa del regime militare senza che si faccia diretto riferimento alla condizione politica del paese. Pablo Larraín sceglie di parlare della dittatura militare in maniera obliqua, portando ad identificare il vissuto dei protagonisti col più generale stato di imbarbarimento della società cilena e pedinando il passo dolente di Raùl Peralta (un grande Alfredo Castro), una specie di sognatore alieno che cammina sempre rasente i muri per non incappare nelle ronde militari, un uomo assai deviato psicologicamente, prim’ancora che dalla smania di emergere ad ogni costo, da un ambiente circostante che sembra ricordargli ogni attimo cos’è più giusto fare per realizzare più in fretta possibile i propri obiettivi. Il film e il personaggio di Tony Manero non rappresentano quindi il momento di evasione da una vita irrigimentata dal regime militare, la legittima fuga verso l’esterno, ma l’elemento che contribuisce ulteriormente ad alimentare le spinte ossessive di una personalità deviata. Nel ventre molle di un paese malato, Raùl Peralta trova un ingiustificato movente per portare a compimento le sue insane sensazioni. Pablo Larraín è stato molto bravo a fare di Raùl Peralta lo specchio emblematico di un intero paese, sia mostrandoci la crisi identitaria in atto attraverso la rincorsa ossessiva di modelli culturali effimeri e consolatori, simbolo di un disimpegno dalle sorti reali del paese, che facendo della disordinata amoralità di Raùl l’effetto assai possibile dei germi involutivi seminati dalla dittatura. Raùl Peralta agisce con imperturbabile serenità, come chi sa che le sue malefatte, se non devono rimanere impunite, possono almeno celarsi meglio nel generale clima di terrore. Lui ha uno scopo ben preciso e ogni ostacolo che vi si frappone deve essere necessariamente rimosso. Tanto, in un paese che ha regolarizzato la violenza, i suoi peccati possono passare come degli effetti collaterali facilmente assorbibili. Nel suo piccolo mondo lui è una specie di Dio, un Tony Manero dei poveri appunto, Goyo lo ammira e lo contraddice mal volentieri, le tre donne se lo contendono in amore, dalla matura Wilma alle più giovani Cony e Pauli (che sono madre e figlia), come un premio che è bello mostrare in pubblico finchè ha valore e non smette di luccicare. “Finchè si è di moda” , come dice Wilma a Raùl parlando di come si comporteranno le due “giovani donne” quando sarà passata la febbre per Tony Manero. Perché la moda può veicolare le sensazioni e i comportamenti a seconda dello stato emotivo contingente, può far esaltare se si riesce a diventarne partecipi o deprimere se vi si è tagliati fuori, può dare luce se vi si conforma passivamente o togliere patenti di cittadinanza se la si osteggia. Ma le mode passano e se uno si è fatto ubriacare troppo dalle sensazioni del momento rischia di rimanere con tante aspettative andate deluse e un cumulo di cicatrici in fondo al cuore. Proprio come succede con le dittature.