Sinossi: La piccola città di Rose Creek giace su un bacino minerario su cui il crudele magnate Bartholomew Bogue ha tutta l’intenzione di mettere le mani. Pone quindi gli abitanti del luogo di fronte a una scelta: accettare i pochi spiccioli che offre loro per sloggiare o morire. I cittadini disperati assoldano il cacciatore di taglie Sam Chisolm e altri sei fuorilegge – per lo più assassini prezzolati e biscazzieri – perché li proteggano. Mentre preparano la città per una violenta resa dei conti che sanno essere imminente, questi sette mercenari realizzano di lottare per qualcosa che va ben oltre il denaro.
Recensione: C’è un momento ben preciso in questo sequel de I magnifici sette in cui Antoine Fuqua ci mostra un assaggio del film che avrebbe potuto realizzare e che invece, per qualche motivo, non ha fatto. È più o meno nel bel mezzo della lunghissima battaglia finale, quando l’ingresso in scena di una mitragliatrice Gatling a più canne rende chiaro un po’ a tutti come ormai la mira, il fegato e una buona pistola non siano più sufficienti per avere la meglio in un duello. La fine di un’epoca viene così sintetizzata in un’unica e cruenta scena che spazza via ogni traccia di eroismo residuo per fare spazio a una modernità fatta di automatismi bellici e armi che esulano dalla destrezza di chi si trova a maneggiarle.
Immagine dal notevole valore metatestuale che coincide anche con l’unico momento di grande cinema di un western che, per il resto, si adagia sui più comodi standard del genere. Non vi è quasi alcuna traccia infatti del processo di riscrittura operato negli ultimi anni da Quentin Tarantino, come rimane ben poco anche della matrice originale (I sette samurai di Kurosawa) che aveva ispirato il capolavoro del 1960 di John Sturges. Ma del resto Fuqua non ha mai avuto chissà quali velleità autoriali e chiunque avesse intravisto in lui qualcosa di più di un pur notevole regista action ai tempi di Training Day, ha avuto nel frattempo ben 15 anni e addirittura un King Arthur per ricredersi.
Se si smette quindi di pensare a Django – ma anche solo alla splendida rilettura di Quel treno per Yuma fatta da James Mangold – e si contestualizza I magnifici sette come nulla di più che un sontuoso prodotto major, il risultato non appare neanche poi così male. Perché l’autore di The Equalizer e Southpaw, pur non essendo un campioncino di introspezione, con la macchina da presa ci sa fare e lo dimostra pienamente in una resa dei conti diretta e montata in modo magistrale che occupa l’intera seconda metà del film. Il problema semmai è che, prima di arrivare a quel punto, il film si dilunghi eccessivamente in una prima parte che ha il solo compito di presentare i singoli personaggi.
E qui arriviamo alle note più dolenti. Già dai primi trailer, infatti, si intuiva come le scelte di casting lavorassero tutte in direzione di un melting pot un po’ fuori luogo per un film di ambientazione western. Fermo restando la volontà di sostituire Yul Brinner con un Denzel Washington al quale nessuno rivolge mai alcun epiteto razzista (circostanza un po’ strana per una società con un piede ancora ben piantato nello schiavismo) e di introdurre un indiano che, all’epoca, immaginiamo assai poco propenso a schierarsi con dei visi pallidi, ci si interroga su come un coreano maestro nel lancio di coltelli possa essere capitato a fine ‘800 in pieno Far West. Per non parlare poi delle quote rosa, garantite da una Haley Bennett che passa in breve tempo dal ruolo di giovane vedova inconsolabile a tiratrice scelta.
Fatte salve queste incongruenze verso le quali, trattandosi di Hollywood, ci sentiamo anche di poter soprassedere, I magnifici sette mantiene poi buona parte delle sue promesse di intrattenimento di lusso. Alla fine gli si perdona anche il suo essere così dannatamente classico, trattandosi del remake di quello che forse è il più classico dei film western. Perché Fuqua molto semplicemente non utilizza il genere come filtro formale per parlare d’altro ma lo sposa, assoggettandovisi in maniera forse anche un po’ supina, in nome dello spettacolo.
Che invece la sceneggiatura porti (anche) la firma di Nic Pizzolatto – l’autore di True Detective per intenderci – dice invece molto su come la sperimentazione e la libertà di linguaggio siano oggi molto più di casa in TV che non al cinema.
Fabio Giusti