Ombre dal fondo di Paola Piacenza, è stato il film di chiusura delle Giornate degli Autori durante la 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il documentario è stato prodotto da Luca Mosso e, per Frenesy Film, da Luca Guadagnino in collaborazione con Rai Cinema e Deneb Media
La giornalista milanese, nello staff del magazine Io Donna (Corriere della Sera), racconta la genesi del suo lavoro che ha come protagonista Domenico Quirico, reporter de La Stampa, sequestrato in Siria nel 2013 e rilasciato dopo 152 giorni di prigionia, episodio che ha poi raccontato nel libro Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria (Neri Pozza) scritto a quattro mani con Pierre Piccinin da Prata.
Ombre dal fondo testimonia come il vissuto dell’uomo sia indissolubilmente legato alla propria condizione di inviato di guerra: non solo giornalista, ma osservatore dei cambiamenti in corso nei luoghi oggetto dei suoi reportage, oltre che della propria vita.
Come ti è venuta l’idea per questo progetto?
Avevo girato già tre documentari per i quali ero sempre andata molto lontano da casa. Volevo raccontare qualcosa che mi fosse vicino, mi dicevano che avrei dovuto farlo e sentivo che non avevano torto. Quello cui pensavo più frequentemente era il mio lavoro, la professione giornalistica che stava e sta cambiando, in modi talvolta poco comprensibili. Ho fatto qualche falso movimento mentre raccoglievo idee e materiali… In tutto questo c’era stato il rapimento di Domenico Quirico, una voce che seguivo da prima del suo sequestro. Poco dopo il suo rilascio l’ho incontrato, grazie a un amico comune. Gli ho chiesto se aveva voglia di partecipare a un documentario sul giornalismo che raccontasse la sua personale visione della professione.
Quanto sono durate le riprese?
Due anni e mezzo complessivamente, durante i quali abbiamo anche cominciato a lavorare al montaggio. Che ha poi preso altri sei mesi alla fine. Valentina Andreoli, la montatrice, è stata su questo film per un tempo di gran lunga superiore a quello che normalmente un montatore dedica a un progetto. E l’ha fatto in modo molto poco convenzionale, con grande elasticità e intelligenza. La vita di Quirico andava avanti e noi registravamo i cambiamenti, non c’era un piano di lavorazione predefinito, sarebbe stato impossibile. Il film è cominciato come un dialogo e solo quello ha preso un anno intero. Abbiamo girato quattro lunghe interviste, tutte a casa sua, nella quiete del suo studio: la semplicità di un discorso tra due persone che col tempo evolveva. Anche perché i nostri incontri erano molto distanziati: passavano mesi, a volte, tra l’uno e l’altro, a causa dei numerosi impegni di Quirico, dei suoi viaggi. Durante le attese, succedevano molte cose nella sua vita: si muoveva, scriveva libri, faceva nuove esperienze… E tutto questo rientrava poi nel dialogo del documentario. La colonna vertebrale del film è rimasta, come pensavo sin dall’inizio, la sua parola, ma a un certo punto ho sentito il desiderio di provare a uscire dalla stanza, di vedere come lavorava sul campo. Gliel’ho chiesto, pur sapendo che fino a quel momento si era sempre mosso da solo, che non amava avere intorno fotografi o operatori che modificassero il contesto, ma lui, sorprendentemente, ha accettato. Siamo partiti allora per il Donbass, lungo il fronte dove si confrontavano le forze ucraine e quelle filo-russe. Sul campo Quirico lavora in un modo molto personale, è un professionista dell’osservazione, fa poche domande, prende pochi appunti, ma quando ho letto quello che aveva scritto di quel viaggio, mi sono resa conto che aveva notato dettagli che erano sfuggiti a tutti noi.
Quasi una sorta di antropologo…
Sicuramente la sua attenzione è tutta rivolta all’uomo. Lo dice spesso e lo ripete anche nel film: «La mia vita è fatta dei frammenti delle vite degli altri», penso che sia vero perché un cronista come lui, per come l’ho visto io, non può che essere abitato dai suoi incontri, quasi mai lieti. Sono molto spesso tragici: uomini e donne in cui si è imbattuto talvolta quando erano al bordo dell’abisso, una condizione che ha vissuto anche lui.
Dal 2009 ti occupi di documentari. Perché hai scelto questa strada?
Sono arrivata al documentario molto tardi rispetto agli standard: ho incominciato a quarant’anni suonati. Credo che lì si uniscano due interessi: il cinema – soprattutto il cinema della realtà – e il giornalismo. A un certo punto è stato per me abbastanza spontaneo provare a conciliarli. Così, mi sono comprata una camera e sono partita: l’idea era cercare di raccontare storie come non riuscivo più a fare solo sulle pagine del giornale.
Dalla laurea in semiotica al mondo del giornalismo e del documentario. I tuoi studi hanno influenzato le scelte che hai fatto fino a ora?
D’istinto direi di sì, sono tutte lingue nuove che apprendiamo nel corso della vita, imparando a usare nuove strutture, nuove grammatiche. Sono convinta che non ci sia un tesoro più prezioso della mia lingua madre, tant’è che mi ci guadagno da vivere. E sicuramente il racconto per immagini è un altro idioma. Lo conosco da poco tempo, non ne sono ancora tanto esperta, però adesso farei fatica a rinunciarci.
Francesco Foschini