Un coacervo improponibile e cacofonico di elementi di avanzo del suo cinema, utilizzati molto meno abilmente e senza l’ombra dell’energia e del mordente dimostrati in passato. Purtroppo è inevitabile parlare con tanta asprezza del nuovo lavoro di Emir Kusturica, presentato in concorso alla 73esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Opera che non possiede neanche i requisiti minimi per entrare a far parte di una selezione che contenga dei film ospitati in una competizione internazionale di questo livello.
Il regista serbo presenta un prodotto dalla trama sgangherata, nella quale tutto è sgraziato, i personaggi sono uno più improbabile dell’altro, l’ironia è forzata e non diverte, le tematiche sono rappresentate in modo sommario e poco coerente, con tanta ripetitività e un numero spropositato di condizioni del tutto inverosimili e grottesche, che anche nel caso lo siano volutamente hanno un effetto disturbante, talmente sono mal curate. Così vediamo capriole con salti carpiati improponibili, oche che si incendiano, pecore che esplodono e ascese al cielo del tutto fuori luogo, scene di un pacchiano talmente inopportuno da far sì che ci si chieda se siano dettate da un qualsiasi tipo di intento, si può intuire che corrispondano a una scelta precisa del regista di usare un linguaggio volutamente eccessivo, forse provocatorio, che del resto è sempre stato una sua peculiarità, ma che in questo caso, oltre a non essere efficace, esita nel ridicolo.
Da sottolineare che nella prima parte, le vicende narrate sono facilmente sovrapponibili a quelle di Gatto nero, gatto bianco, Kusturica non si sforza nemmeno un minimo di variarle, quindi ancora la proposta di un doppio matrimonio che si celebrerebbe lo stesso giorno, le oche e le immancabili canzoncine folcloristiche che, se negli altri film assumono un carattere proprio che conferisce tipicità alla narrazione, in questo caso sono veramente troppe e a un certo punto appaiono solo come dei riempitivi. La seconda parte, che dovrebbe essere quella più originale, sfortunatamente si sviluppa in un crescendo ulteriore di stravaganze che divengono progressivamente sempre più paradossali, scelta che, lungi dal renderle intriganti o fantasiose, non fa altro o che renderle, se possibile, ancora più respingenti.
Per di più, oltre a saturare quasi tutto lo spazio disponibile nella scena, riempiendolo di frastuono e colori sgargianti, nella seconda metà del film la narrazione prende una direzione che si concentra su un’unica dinamica sentimentale avente la guerra come sfondo in modo sconnesso e per niente omogeneo, che risulta abbastanza banale e priva di qualsiasi guizzo che possa destare curiosità o interesse. Il racconto sembra portato avanti giusto per arrivare alla fine, tra amputazioni, esplosioni e due o tre passaggi acquatici decisamente ridondanti. Un fluire disordinato e forsennato che dovrebbe-vorrebbe trascinare ma stordisce, lasciando una sensazione di disturbo e fa rimpiangere il fatto che questo cineasta sia lo stesso che è stato in grado di regalare al cinema opere di ben altro spessore. Nonostante sia un ritorno alla regia dopo anni di inattività in questa veste, si spera sia solo una parentesi infelice e che l’autore possa tornare a esprimersi con lo slancio e l’efficacia che lo hanno contraddistinto in passato.
Roberta Girau