Copia conforme (Copie conforme) è un film del 2010 diretto da Abbas Kiarostami. Con questa interpretazione, l’attrice Juliette Binoche ha vinto il Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes 2010.
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Abbas Kiarostami torna con Copia conforme, in concorso al Festival di Cannes, deliziando l’occhio ma soprattutto l’orecchio, con le conversazioni ridondanti, ingenue, magnifiche dei due protagonisti (Juliette Binoche e William Shimell), trascinati in un procedimento linguistico estremo, dove a porsi in un confronto dialettico sono il dritto e il rovescio, la vita e il sapere, l’originale e la copia, la verità e il simulacro.
Sin dalla prima sequenza, in cui un’inquadratura fissa è riempita solo da un libro di cui si attende l’autore, è chiaramente percepibile il riecheggiare di un pensiero che non si mostra, perché colto nel suo movimento, come se il passaggio dell’idea fosse l’unico oggetto possibile del cinema: l’immobilità del passaggio e il passaggio dell’immobile sono le due serie che innescano l’automatismo del dispositivo cinematografico, e l’oblio del pensiero è il ‘glorioso’ risultato di tale procedura.
Un uomo e una donna s’incontrano tra i colori pastello della campagna toscana, ma si conoscevano già da sempre, forse erano addirittura sposati; la riflessione proposta all’inizio del film sul rapporto intercorrente tra originale e copia, questione su cui i platonici potrebbero trastullarsi ad libitum, viene sottratta repentinamente ai toni accademici da convegno per esser gettata nella mondanità, perché il mondo è l’insieme dei sintomi di quella malattia che è l’uomo.
Ecco che l’autore, attraverso i passaggi da una lingua all’altra (durante il film si parla in italiano, in francese e in inglese), spinge il linguaggio fino ai suoi limiti, rivelandone ‘il fuori’, ma senza andarne ‘al di fuori’, e l’iniziale lotta tra vita e sapere, madre e padre, Terra e Dio, cede il passo ad un’indiscernibilità dei termini che annulla il conflitto, e ciò che traspare è un evento: nuove e straordinarie figure dell’essere vengono alla luce.
La ricchezza espressiva del volto di Juliette Binoche, la cui pelle chiara emana un bagliore che confonde, si scontra con la rigidità della maschera di William Shimell (di professione tenore, ma assai credibile nelle vesti di attore), e a completare la composizione dell’immagine sono le sagome restituite dalle superfici riflettenti, che fanno dissolvere gli interpreti in un flusso orale che attraversa lo spettatore.
Non scopriremo mai se i due protagonisti recitino o facciano sul serio, ma è grazie a questo inestricabile equivoco che cogliamo ‘la verità della verità’, cioè che la vita è assolutamente ingiustificabile, proprio perché non dev’essere giustificata.
La situazione cui assistiamo appare irragionevole, ma il problema non consiste nel divenire folli, piuttosto nell’attraversare la follia in ‘buona salute’, lasciando esprimere quelle potenze creative che offrono l’occasione di smarcarsi dall’oppressione di una deiezione quotidiana che fatalmente incombe.