“Tutto avviene contemporaneamente; passato presente e futuro accadono insieme.”
È affascinato da questo aspetto del tempo Nick Cave, una delle figure artistiche più emblematiche, tormentate e carismatiche del nostro tempo, uno degli ultimi poeti rimasti, che viene ritratto in occasione dell’uscita imminente del suo nuovo album, Skeleton tree, nello splendido e commovente documentario di Andrew Dominik, presentato nella Sezione Furori Concorso alla 73esima Mostra Cinematografica di Venezia.
Il regista australiano firma un’opera preziosa, un dono per gli occhi e per l’anima di qualsiasi spettatore dotato di sensibilità artistica e umana che si ritrovi ad avere la fortuna di incontrarla.
Ed è un tempo che non è più lineare, quello che sta vivendo e che cerca di descrivere il cantautore cinquantottenne, un tempo che si dilata e si contrae assumendo forme nuove, che per quanto incoerente e astratto, inesorabilmente si porta sempre e comunque avanti e lo costringe a dover evolvere continuamente in relazione al suo muoversi e ai suoi scherzi, fino a raggiungere una percezione di sé totalmente diversa, nel momento in cui la vita lo pone davanti all’evento più tragico che si possa immaginare nella vita di un uomo, la morte di un figlio. Evento che cambia completamente la sua vita e che rappresenta necessariamente il perno intorno al quale ruota il suo essere, e quindi anche Dominik, che, nella scelta di avvicinarsi a lui in un momento così vitale e devastante, non può fare a meno di esserne totalmente assorbito.
È costantemente presente quindi, si respira in ogni attimo, in ogni sguardo, in ogni parola proferita, immagine, suono di quest’opera, il giovane Arthur, uno dei due figli gemelli di Nick Cave morto soltanto un anno fa cadendo da una scogliera; la sua perdita, la sua assenza, il dolore infinito e incommensurabile, minimamente ancora elaborato, che ne consegue, ne pervade totalmente l’atmosfera. Nonostante appunto si tratti di una presenza centrale e costante, il lutto per la morte del ragazzo, che aveva solo 15 anni, non esaurisce assolutamente lo spazio, ma, anzi, costituisce fondamentalmente un filo conduttore necessario, che, per la sua portata emotiva, consente al regista di accedere e penetrare un’area profondissima della personalità del cantante, un luogo che normalmente sarebbe difeso, ma, in corrispondenza di un periodo tanto vicino a un evento di vita così atroce, diventa un libro aperto, in cui egli lo trova completamente sguarnito, nudo, ed è lui stesso a stupirsene, a sorprendersi nel rendersi conto di sentire il bisogno di condividerlo e di fallire nei pochi tentativi di evitarlo.
Dalle dichiarazioni, si evince che Dominik abbia intrapreso il progetto assecondando una richiesta dello stesso Nick Cave, con il quale ha un rapporto di amicizia che va oltre quello professionale.
I due avevano già lavorato insieme nel 2007, al bellissimo The assassinaton of Jessie James by the coward Robert Ford, nel quale, oltre a occuparsi della colonna sonora, il cantante ha recitato anche un piccolo cameo.
Così abbiamo il privilegio di essere intimamente partecipi di un’enorme vulnerabilità, ed è dolorosissimo e al contempo meraviglioso, vedere come quest’uomo sia stato letteralmente travolto, quanto sia ancora stordito, spaesato, quanto ancora barcolli e come cerchi di darsi una spiegazione, di trovare un senso a quello che gli è accaduto e di farlo anche nel cercare di descriverlo a chiunque lo ascolti. E viene a galla naturalmente la rabbia, il malessere nel sentirsi fuori controllo, e soprattutto il disagio che prova nel ricevere l’empatia e la compassione degli altri, che lo costringono a fare i conti con il dolore e a non potergli sfuggire, obbligandolo a condividere un’intimità con la quale lui stesso non è pronto ad entrare in contatto.
“Quand’è che sono diventato oggetto di pietà?”
Un magma rovente dal quale l’artista trova respiro e sollievo nel confrontarsi più che altro con gli estranei e con la telecamera, che, a differenza delle persone più intime, soddisfano il bisogno di dare voce a qualcosa di incontenibile, che è intollerabile mantenere così grande dentro un unico corpo, mente, cuore, che straripa, e che probabilmente esploderebbe se non avesse sfogo, ma allo stesso tempo gli consentono la distanza necessaria per non percepire troppa empatia, rischiare di non riuscire a reggerla, e potenzialmente crollare.
Ed emerge altrettanto distintamente dai testi delle canzoni che vengono presentate nel documentario, forse in modo anche più chiaro per chi conosce bene il cantante e la sua opera, come la sua fede, la presenza di un Dio, quale punto di riferimento maestoso e possente, che è sempre stata un elemento costante e preponderante nei suoi testi, abbia subito un duro colpo e come ora egli viva inevitabilmente una forte destabilizzazione rispetto a questa parte di sé.
Il dolore, la rabbia, l’incapacità di realizzare e di fronteggiare la realtà, il bisogno vitale di tenerlo ancora vicino a sé, vengono espressi meravigliosamente da ogni verso incredibilmente poetico delle canzoni che compongono il nuovo album. Chi conosce bene Nick Cave ha un’idea ben precisa di come la tristezza, l’angoscia, la sofferenza, abbiano sempre impregnato la sua musica, indipendentemente dal trauma che ha dovuto subire. Parlandone durante una delle interviste del film, egli afferma che molti artisti desiderano che gli accada qualcosa per poi poterne scrivere, ma che nel suo caso, il trauma che ha vissuto ha bloccato il processo creativo lungi dall’ispirarlo. Il che, se ce ne fosse bisogno, rende ancora più chiaro quanto ancora non sia in grado di starci dentro e di farci i conti. In questo ultimo album, per quello che si può evincere dal film, si riconosce la stessa poesia, la stessa anima veemente e profondissima, lo stesso bisogno di comporre, di esserci, di regalarsi e regalare la propria essenza, di spanderla, di condividerla, ma dalla propria solitudine, come ha sempre fatto, mantenendo una distanza necessaria dagli altri e dal mondo e nonostante questo riuscendo sempre a raggiungere chi lo sente con una forza rara.
La differenza è che qui tutto questo è straordinariamente amplificato e che ogni vissuto è convogliato in un fiume travolgente, potentissimo, infinitamente penoso e straziante, che riduce ineluttabilmente quella distanza, il che probabilmente è qualcosa di pericoloso per lui ma diventa magico per chi lo ascolta. E così come Nick Cave ha paura di fare un torto ad Arthur, nel parlare di lui, nell’assecondare il bisogno di condividere un dolore che trabocca dai suoi occhi e traspira da ogni poro, anche noi, che ci si trova davanti a tanta esposizione, si prova quasi un senso di imbarazzo ad accedere così gratuitamente a una sostanza così pura e profonda, ci si sente un po’ come se non se ne avesse il diritto, sembra quasi di invadere uno spazio troppo prezioso, troppo intimo, e, se gli si vuol bene, viene voglia di proteggerlo.
Dolcissime le scene in cui l’artista viene ripreso con la famiglia, di straordinaria intensità la commistione di espressioni che trasmette nel momento in cui la moglie cerca di parlare senza piangere di un disegno fatto dal figlio quando era bambino, dove si percepisce la voglia di aiutarla, l’istinto di proteggerla, l’empatia verso il suo dolore, ostacolata dalla grandezza del proprio, che gli impedisce anche solo di parlare o portare a compimento un timido gesto abbozzato per starle vicino. La moglie di Nick Cave, Susie Bick, che gli sta accanto dal 1999, è anche lei una figura di grande fascino, e la forza del loro legame, la vitale importanza di questa donna nell’equilibrio e nella vita del cantante è palese in ogni scena in cui vengono inquadrati o in cui egli ne parla.
“Sono andato da uno psichiatra per risolvere alcuni problemi, ad un certo punto mi sono reso conto che parlavamo molto più Susie che di me, anche lui del resto era molto più interessato a lei”.
“Gli uomini sono pieni di sfaccettature, le donne ancora più degli uomini. Mia moglie è meravigliosamente tridimensionale. Ogni volta che provo a capirla, diventa qualcun altro. O esce dal fotogramma. Poi torna ed è cambiata. È entrata in contatto con i morti.”
E vedere stringersi forte quello che rimane della loro famiglia, loro due e il gemello rimasto, Earl, la cui voce tenerissima ascoltiamo sulle note dei titoli di coda, è una visione veramente toccante.
Insomma, gli si vuol bene.
Qui gli si arriva talmente tanto vicino che è inevitabile volergliene, senza riserve.
Quando si entra in contatto con un livello così profondo e carico di umanità, se si è dotati di una coscienza emotiva e anche solo di un minimo di empatia è veramente impossibile non sentire affetto per un uomo così esposto e incredibilmente bello proprio in virtù di questo, a prescindere dal fatto che lo si conosca come artista o lo si apprezzi.
È stata magistrale la mano talentuosa di Dominik nel ritrarre tutto questo, rispettando la dignità di una famiglia sofferente senza rinunciare a mostrarne la bellezza. Attraverso un utilizzo efficacissimo del 3D e di un bianco e nero denso particolarmente consistente, è riuscito a dare una luce ideale a un materiale che di per sé possedeva un energia propria e un valore inestimabili.
Il documentario, che nella forma alterna l’esecuzione di alcune canzoni del nuovo album a delle interviste dirette, con l’intercalare di immagini accompagnate dalla sua voce fuori campo, e si muove tra lo studio di registrazione, alcuni brevi tragitti in macchina e l’abitazione di Nick Cave, con la stessa fluidità e la stessa grazia con cui racconta il dolore e il tentativo di elaborare il lutto di questo grande poeta, ci offre uno sguardo su tutta una serie di altri elementi di una personalità fragile quanto immensa, che, al di là del lutto, lo trova nel suo essere uomo, artista, amico, marito, oltre che un padre distrutto.
E così Dominik incontra e accoglie diversi altri aspetti che lo caratterizzano in un dialogo autentico che consente di scorgere le tante sfaccettature in cui si articola il suo modo di essere. Nick Cave riflette sulla sua evoluzione come artista e come uomo, affermando di non credere più nella narrazione, essendosi reso conto che in fin dei conti secondo lui la vita non è una storia, ma più un accadere continuo fuori controllo. Così, se prima sentiva l’esigenza di raccontare, di inserire una trama nelle sue canzoni, ora motiva in questo modo un album composto da brani più astratti, la cui trama è molto più carente, il tempo compresso, in cui non vi è una logica o un lieto fine.Così come non esistono nella vita. È dolce e triste allo stesso tempo la percezione di se stesso e della propria immagine che emerge da questo ritratto, ogni tanto chiede al suo fedele collaboratore e amico da anni, il violinista Warren Ellies, se i suoi capelli sono a posto e lui affettuosamente lo rassicura sistematicamente. Nick avverte un declino sia fisico e mentale che esplicita asserendo come sia sempre maggiore lo sforzo che gli è necessario per fare quello che fa.
“Cazzo, cosa è successo alla mia faccia?
Quelle occhiaie l’anno scorso non c’erano…
Sto forse perdendo la voce?
Classificateli tra gli oggetti smarriti.
La mia faccia.
La mia voce.
La mia memoria.
Il mio giudizio.
Ma non è forse vero che le cose invisibili sono quelle che hanno più massa e peso?”
Un’altra scena meravigliosa è quella in cui Nick cerca di descrivere e riesce a trasmettere perfettamente e con grande intensità la natura del rapporto che lo lega a Warren Ellies, con il quale dice di ritrovarsi insieme in una stanza a comporre le loro canzoni, in due, improvvisando, e descrive l’eccitazione che prova nel sapere esattamente cosa canterà, che note suonerà e nello stesso tempo di scoprire che il brano si costruisce con l’apporto di qualcos’altro che è inaspettato, esterno a lui ma che gli è estremamente vicino. È il valore della condivisione, del sentirsi affettivamente accolto e protetto dalla vicinanza di qualcuno che per lui è una certezza, senza dover mai rinunciare alla propria individualità. L’immagine che ne viene fuori, in una luce dai colori caldissimi, cui segue una delle canzoni dell’album, è straordinariamente bella.
Infine, il cantante delinea il suo rapporto con le parole. Dice di adorarle e temerle allo stesso tempo di come siano loro a portare avanti il mondo. Che ha paura di dove possano condurlo. Così, di solito cerca di tenerle sotto controllo, ma in questo caso, in questo ultimo album, ha scelto di lasciarle libere. Ed è nella libertà di questo flusso di musica, parole e immagini che Andrew Dominik ci regala un viaggio incredibile di cui vale la pena godersi ogni momento e conservarlo accuratamente nell’angolino più prezioso che abbiamo, per poterne recuperare frammenti ogni volta che si sente il bisogno di qualcosa di bello.
Roberta Girau