Zoran, il mio nipote scemo è un film del 2013 diretto da Matteo Oleotto ed è una co-produzione italo-slovena. L’opera è stata presentata alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica e ha vinto il Premio del Pubblico RaroVideo.
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E’ ancora tutto buio nell’incipit del film, dopo i titoli di testa silenziosi: si sente il rumore del vino versato, della bottiglia appoggiata sul tavolo, seguito da quello del primo sorso (il primo di una lunga serie) e dalla voce di un uomo all’osteria; poi compare l’immagine e il soliloquio continua, impastato dal vino. Ma quanto ne viene versato e bevuto, nell’ora e tre quarti di questo racconto! I bicchieri pieni vengono addirittura usati come pedine per una partita a dama, e svuotati ad ogni negligenza! Non siamo in un’osteria qualunque, ma in un’ osmiza, luogo tipico del Friuli vicino alla Slovenia, che il protagonista, Paolo Bressan (Giuseppe Battiston), continua a chiamare Jugo, diminutivo di Jugoslavia, anche se di tempo ne è passato dalla Jugoslavia ad oggi.
Ma il tempo sembra essersi fermato in questo luogo di confine, che Paolo attraversa con il suo pullmino sgangherato, come sgangherata è un po’ tutta la sua vita. Anaffettivo, cinico, imbroglione, irresponsabile, sgradevole, bugiardo, collerico, dispettoso e dedito al bere. Lo dicevamo già a proposito del film di Mazzacurati La sedia della felicità. A Battiston stanno riuscendo molto bene i ruoli negativi; e Matteo Oleotto, alla sua prima prova di regia, riesce a rendere bene il livore che attraversa il suo sguardo con primi piani ripetuti. E’ lo stesso livore degli interni e degli esterni: la casa trasandata e priva di luce, le strade di campagna riprese la notte, quando lui, ubriaco, deve ripararsi a casa dell’amico per non farsi ritirare la patente dalla polizia.
Più luminoso e lezioso l’appartamento di Stefania, la ex-moglie che vive ora con un uomo banale, nevrotico e un po’ sciocco, ma di buon cuore (Roberto Citran), che si industria per farlo lavorare, e lo nutre con le specialità della moglie ogni domenica a pranzo, senz’ombra di gelosia, e senza accorgersi che Paolo invece non esiterebbe un istante a riprendersela.
Nella ripetizione dei giorni, nel disamore per il lavoro, la quotidianità e se stesso, arriva di colpo Zoran, sedicenne molto stravagante, che agli occhi del semplicismo sbrigativo di Paolo, a cui non piacciono le sfumature, appare scemo e basta. Zoran ha imparato l’italiano da due romanzi, Lampi sull’Isonzo di Giulio Previati e Lacrime di fanciulla di Enrico Cosulich, dalla biblioteca della nonna slovena, zia di Paolo, che morendo non lascia altra eredità, se non l’adolescente Zoran di cui farsi carico per qualche giorno e un cane di ceramica a grandezza naturale.
Nella provincia goriziana nessuno conosce i “due capolavori letterari” (così li definisce Zoran), e d’altra parte nessuno ha l’aria di essere accanito lettore. Non lo è di certo Paolo Bressan, che ridicolizza il nipote per il suo modo di parlare: lo chiama Leopardi, poi Zagor, poi biondo, ma mai con il suo vero nome, mentre il ragazzo i nomi ama pronunciarli interi: “Il mio nome per esteso è Zoran Spazapan” dice nel presentarsi e chiama lo zio “zio Paolo Bressan”, dandogli del lei, mantenendo lo stesso distacco dei primi momenti. Zoran è l’ospite inatteso: dalla sua comparsa si sa che prima o poi le distanze si accorceranno, si intuisce che il diverso sarà occasione di consapevolezza, come sempre accade nelle relazioni impossibili delle storie a cui il cinema e la letteratura ci hanno abituati. Un esempio tra tutti, L’ospite inatteso di Thomas McCarthy, appunto, del 2007. Allora era un giovane siriano che irrompeva nella casa di Walter Vale, professore universitario in crisi di ruolo e d’età, che viveva nella solitudine della sua vedovanza; qui invece l’altro, con il suo aspetto così naive, arriva da un luogo appena varcato il confine.
E’ tutta una storia di confini questa di Matteo Oleotto: tra l’adulto (adulto, poi!) e l’adolescente, l’italiano e lo sloveno, tra un tipo prevaricatore e l’altro fin troppo docile. Ma nell’incontro tra una personalità aggressiva-attiva e quella aggressiva- passiva, la prima vuole a tutti i costi litigare e la sottrazione dell’altro la rende ancora più bisbetica. Zoran è aggressivo a modo suo, nella sua estrema arrendevolezza, sottomissione, cocciutaggine, nel mantenere il suo modo stereotipato di parlare e di agire.
Il confine più rigido però è quello tra le due parti del carattere di Paolo, che raramente si scopre nella sua fragilità, sempre mascherata di sbruffonaggine. Zoran gli sta davanti, a ricordargli che può esserci un altro modo di vivere, che esiste la pacatezza, la mitezza, l’accettazione rassegnata del destino, a rendere le rabbie di Paolo ancora più assurde, e ad alimentarle. Si fa sempre più stizzoso, cattivo ed esigente, di fronte a Zoran che è lì come la sua ombra, quella parte del Sé che non si vuole ascoltare, che è stata seppellita un tempo, ma che di tanto in tanto richiama la sua presenza. Solo così si può spiegare il suo accanimento nei confronti del nipote “scemo”; ma chi dei due lo è di più?
Zoran sa riconoscere l’amore quando arriva, canta nel coro del paese, si ambienta subito nonostante il suo aspetto così buffo (occhiali enormi, vestito da impiegatuccio d’altri tempi, postura ingobbita, camminata e gestualità irrigidite ai limiti dell’autismo); tutti però ne apprezzano la sincerità e lo prendono a benvolere. A Paolo, invece, mancano amore amicizia considerazione e nessun bicchiere di vino può compensare il suo essere davvero scemo, nel senso della derivazione latina del termine, semis = metà, non intero, non pieno. Il percorso dell’integrazione psicologica di Paolo forse avverrà dopo i titoli di coda e a noi non è permesso conoscerlo.
L’avvicinamento tra i due, che può essere l’avvio di un processo molto lungo o può semplicemente ammansire la selvatichezza dello zio, avviene solo alla fine della narrazione, quando Paolo ha toccato il fondo della solitudine, mentre Zoran al contrario raggiunge il punto più alto della sua socievolezza. E dimostra, in un gesto di amore immeritato verso lo zio Paolo Bressan, di aver capito ed accettato le sue debolezze. Film buonista, lo ha definito qualcuno, ma un finale diverso, in cui i personaggi sarebbero stati uguali a loro stessi non avrebbe giustificato la storia. Quando lo zio Paolo-Battiston cade riverso sulla strada e sembra morto, ci prepariamo tutti alla conclusione tragica del cattivo punito e dell’orfano in casa famiglia, un epilogo alla Dickens che non avrebbe rispettato l’evoluzione dei personaggi, resa possibile dalla loro diversità.
Avremmo piuttosto preferito che qualche segnale di intesa ci fosse stato anche prima, perché è vero che Paolo deve sbattere la testa contro il rifiuto di tutti per apprezzare la compagnia di Zoran, ma è anche vero che il passaggio tra il suo brutale rifiuto e la sua tenera accoglienza ci risultano un po’ frettolosi, perchè la presa di coscienza ha sempre bisogno di tempi più lunghi e più credibili.