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73 Festival di Venezia: El ciudadano ilustre di Mariano Cohn e Gustav Duprat (Concorso)

Ottimo ingresso, direttamente in concorso alla 73esima Mostra di Venezia, per gli argentini Mariano Cohn e Gustav Duprat, che al loro quarto lungometraggio, con una commedia brillante e amara allo stesso tempo, si rivelano oggi la sorpresa del festival, ma per chi già aveva avuto il piacere di incontrare i loro lavori precedenti, si confermano due autori decisamente interessanti e di notevole personalità

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Ottimo ingresso, direttamente in concorso alla 73esima Mostra di Venezia, per gli argentini Mariano Cohn e Gustav Duprat, che al loro quarto lungometraggio, con una commedia brillante e amara allo stesso tempo, si rivelano oggi la sorpresa del festival, ma per chi già aveva avuto il piacere di incontrare i loro lavori precedenti, si confermano due autori decisamente interessanti e di notevole personalità.

Complice della riuscita di El ciudadano ilustre, è indubbiamente l’aver egregiamente diretto un eccellente Oscar Martinez, nel ruolo di protagonista, espressivo, tagliente, drammatico quando serve, che non stupirebbe affatto dovesse tornare a casa con in valigia la Coppa Volpi.

Per molti aspetti, la mano dei due registi è già ampiamente riconoscibile, sia per quanto riguarda la messa in scena, essenziale, povera, concreta, volutamente spoglia, simildocumentaristica, sia per la centralità dei temi trattati, l’arte in primis, ma anche la differenza di classe e i vissuti che la caratterizzano, come l’invidia, i limiti e la frustrazione di chi non ce la fa, rapportati a un inevitabile senso di superiorità di chi invece è arrivato, ha raggiunto una posizione “rispettabile e ambita”  e la distanza incolmabile che si crea tra le due parti.

Quest’ultima opera, oltre a essere manifestamente più matura, aggiunge qualcosa alla già stimolante produzione precedente. L’ironia, comunque sempre presente anche negli altri lavori, in questo caso ha un ruolo molto più rilevante, integrandosi e trovando un perfetto equilibrio con vissuti di natura e connotazione opposta come amarezza, cinismo, disillusione; equilibrio che conferisce alla pellicola maggiore fluidità e pregnanza, così da renderla più accattivante. Probabilmente è uno degli aspetti più caratteristici di questo film, proprio quello di associare un registro ironico e divertente(si ride più volte di gusto durante la visione) a riflessioni di non indifferente profondità che lasciano trasparire vissuti di sofferenza notevole, come solitudine, invidia, rassegnazione, rabbia, espressi sia dalla narrazione che dall’ambientazione e dalle immagini.

Il tema dell’arte, già preso in grande considerazione nelle opere precedenti, sia in El artista (2005) che in El ombre de al lado (2008), viene anche qui sviscerato e proposto da molteplici punti di vista. Cohn e Duprat riflettono su quanto la sofferenza possa influire sulla creatività e quindi un individuo infelice possa essere un artista più valido o prodigo o una società in difficoltà possa produrre artisti migliori, su quanto sia più importante l’intenzione dell’artista rispetto a ciò che la sua opera comunica e trasmette a chi ne fruisce, e ancora, su quanto la persona dell’artista vada ben distinta dalla sua arte, e i suoi limiti, la sua morale, il suo comportamento, possano essere indipendenti o meno da ciò che egli crea e quindi artista e uomo siano più o meno sovrapponibili.

Nonostante la risposta a queste domande venga apparentemente espressa esplicitamente anche con veemenza, in realtà viene lasciata allo spettatore, che ha modo di spaziare su un piano più ampio, oltre che su quello esplicito e concettuale, quindi di confrontare i concetti espressi con il loro relazionarsi con gli eventi narrati, ed è così invogliato a fare la propria riflessione personale senza essere direzionato ma solo messo davanti ai fatti. Infine vi è una considerazione sul fatto che l’artista dovrebbe assumersi la responsabilità di “rendere il mondo un po’ meno orrendo”, cui segue più dichiaratamente il disincanto e l’amarezza di chi si rassegna al fatto che sia un impresa praticamente impossibile, senza per questo arrendersi.

I propositi più puliti e integri costituiscono un percorso circolare con i limiti umani e con il bisogno di specchi, che porta l’artista a utilizzare qualsiasi cosa, fatto, evento, esperienza reale o meno, ai fini del creare, del produrre arte,  forte del fatto che “la realtà non esiste”, che non ve ne sia mai una unica, che i fatti vengano comunque sempre e solo interpretati e per questo si prestino così tanto alla manipolazione ma anche all’espressione di sé.

Non abbiamo un uomo limpido, senza macchia, abbiamo un “uomo umano”, avvantaggiato o svantaggiato a seconda dei punti di vista, dall’estrema consapevolezza dei propri mezzi e limiti e di quelli altrui.

“Tutti gli scrittori sono egocentrici, narcisisti, autoreferenziali, altrimenti non potrebbero scrivere”,dice Daniel.

C’è un’unica cosa che risolve tutto, che appiana e sistema ogni cosa, che allinea tutti a un unico livello, che dà un senso definito al percorso di un artista e comunque di ogni uomo, qualsiasi sia il suo modo di creare, di vivere, di sentire, comunque sia fatta la sua arte, qualunque siano i suoi principi, le sue idee, i suoi desideri, le sue contraddizioni.

La morte.

E dirlo facendo ridere tutta la sala per due ore non è affatto scontato.

Roberta Girau

  • Anno: 2016
  • Durata: 118'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Argentina, Spagna
  • Regia: Mariano Cohn, Gustav Duprat