La passione di Cristo in salsa sudamericana. El cristo ciego, opera prima del cileno Christopher Murray – in lizza anche per il premio Luigi De Laurentiis – ha portato una ventata insolita tra le (numerose) produzioni hollywoodiane presenti alla kermesse veneziana.
Murray si fa portavoce della dimensione religiosa che avvolge il giovane Michael (Michael Silva), protagonista di una visione cristologica durante l’infanzia e ora convinto di risolvere ogni complicazione esistenziale attraverso il dono del miracolo. Gli abitanti del piccolo villaggio, sperduto nelle aspre lande desertiche di Atacama, non perdono tempo a denigrarlo, sia attraverso violenza simbolica che fisica. Un giorno, saputo che un caro amico è costretto a letto, Michael intraprende un pellegrinaggio a piedi nudi per raggiungere il capezzale dell’uomo.
Murray non è riuscito totalmente a scaldare la proiezione per gli addetti stampa. La sua narrazione va contemplata in silenzio, bisogna concentrarsi profondamente per carpire ogni sfumatura delle sue immagini, quasi come una preghiera, cosa che non sempre riesce.
La passione di Cristo, tema ormai abusato nell’ambito del cinema, viene ritrattata dal regista cileno con un accenno all’ottica pasoliniana: paesaggi desertici, polverosi, sciatti, decadenti; volti dei personaggi ripresi in primo piano che risultano veri, sofferenti, sporchi, genuini. Tutto ciò corroborato dalla presenza della fede divina, invisibile compagna di viaggio del protagonista. Ed è proprio grazie a quest’ultima che la vera condizione esistenziale (e sacra?) di Michael trova la sua autentica ragione d’essere. Basta solo “aprire gli occhi” per guarire dalla cecità interiore che affligge molti, accettandola con coscienza e umiltà.
Ma tutto ciò non basta per catturare appieno l’attenzione dello spettatore, ed è un peccato, perché l’idea del promettente Murray risulta buona, risente però di una pesantezza narrativa pronunciata, risultando spesso diacronica con la curata composizione visiva.
Francesco Foschini