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Mutilazioni Sociali

Il club di Pablo Larrain

Il tema religioso impregna Il Club di Pablo Larrain, ma è anche un j’accuse contro un clero che si è fatto complice di una dittatura crudele con cui non vuole fare i conti. E se la Lussuria e l’Ira sono i peccati più frequentati da questo gruppo di personaggi, il film è un’opera sulla Superbia, il peccato più grave per la chiesa, superbia per la propria intoccabilità, superbia per la mancanza di verità, come atto di volontaria giustificazione di un passato con cui i conti non si fanno perché quello che è successo, è tutto sommato giusto

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“E Dio vide che la luce era buia, e separò la luce dalle tenebre, Genesi 1:4”

Tra luce e tenebra

Il film inizia con questa citazione dalla Bibbia. La prima inquadratura ha protagonista un uomo che fa correre in circolo un cane su una spiaggia; stacco e in campo medio vediamo una donna che sta pulendo una casa in un piccolo villaggio in riva al mare; un altro stacco e un uomo dà da bere a uno più anziano. La colonna sonora è composta da una musica lenta e triste. Abbiamo un altro stacco e vediamo un altro anziano che sta curando un piccolo orto nelle vicinanze della casa. Il cielo lindo, il mare in burrasca; un altro primo piano sull’uomo sulla spiaggia al tramonto: la luce e le tenebre sono tutt’uno, si distinguono appena sulla linea dell’orizzonte. Sembra che una muoia nell’altra senza soluzione di continuità. In una sequenza successiva i quattro uomini sono inquadrati in controluce su una collina mentre da lontano osservano una gara di cani da corsa. Il cane è accompagnato dalla donna che contratta il denaro per la vincita del cane.

Il nuovo film di Pablo Larrain in poche scene ci presenta il gruppo di quattro preti e una monaca che sono stati allontanati dalla chiesa per i loro peccati e reati e si trovano in una casa protetta in un esilio forzato per espiare le proprie colpe. Ma nella realtà si capisce subito che la loro vita è ammantata di ipocrisia lucida e proterva e già dall’8 minuto si capisce quanto questa sia avvolgente le anime e la loro oscura moralità: l’arrivo al centro di padre Matias Lascano (José Soza) fa esplodere le contraddizioni di “una casa di raccoglimento e preghiera”. Padre Matias è lì per espiare le colpe come pedofilo e viene raggiunto da Sandokan (Roberto Farias) all’11 minuto che ha seguito Lascano e con una litania senza fine accusa il padre delle violenze subite fin dall’orfanotrofio con una descrizione cruda(ele) degli atti sessuali a cui è stato sottoposto contro la sua volontà. L’arrivo di Sandokan disturba il tranquillo tran-tran del gruppo di preti guidati da una monaca e con violenza costringono Lascano ad affrontare Sandokan per farlo tacere. La sua litania è un rosario, dove i grani sono pietre lanciate contro i preti. Padre Lascano esce e ripreso di spalle si spara un colpo alla tempia.

Già qui abbiamo uno scoppio di violenza fisica che è rappresentativa della violenza etica e morale dei cinque individui. Per mettere a tacere lo scandalo con le autorità locali tutti si mettono d’accordo per rilasciare delle false dichiarazioni: si tratta di un “semplice” suicidio di un fratello pieno di rimorsi che loro non conoscevano bene perché appena arrivato.

Nella casa protetta, dopo il fatto, arriva padre Garcia (Marcelo Alonso) in missione per indagare sulla storia dei componenti e sul suicidio. Garcia è un Gesuita, psicologo e viene definito mentre viene presentato “molto bello”, che qui va inteso non per la sua bellezza estetica ma nel significato che gli antichi greci davano alla bellezza e cioè un uomo “bello” è un uomo “giusto, corretto”.

Inizia tutta una parte centrale de Il Club, dopo il drammatico prologo, dove si assiste, in un montaggio alternato, da un lato alla detection di padre Garcia che interroga gli abitanti della casa e, dall’altro, alla loro vita quotidiana, fatta di cene non proprio frugali, di bevute, di preghiere e soprattutto dell’allevamento del cane per partecipare alle corse.

Durante i vari confronti (in primi piani e campi contro-campi classici e drammatici, pregni di silenzio e di sguardi accusatori da parte di Garcia e giustificazioni del proprio operato da parte degli altri preti. Così abbiamo: padre Vidal (Alfredo Castro) che combatte contro la propria omosessualità repressa, ma soprattutto contro il suo desiderio carnale per i bambini, accusato di pedofilia e non pentito; padre Silva (Jaime Vadell) prete colluso con la dittatura militare, che ha assistito agli assassini e alle torture perpetrate dai soldati e dagli ufficiali per dar loro assistenza “spirituale”, anche lui a giustificare il proprio operato; padre Ortega (Alejandro Goic) che sembra il più protestatario e proletario del gruppo ma che nella realtà rapiva i bambini alle famiglie povere per farli adottare a famiglie ricche e borghesi legate alla dittatura, con la convinzione di fornire loro una vita migliore di quella che li attendeva, e in qualche modo si sente un salvatore di anime e di corpi; padre Ramirez (Alejandro Sieveking) colpito da demenza senile, che nessuno sa da dove venga e anche lo stesso Garcia non ha una scheda che gli possa presentare l’uomo, in sostanza un prete di cui sembra il passato cancellato per chissà quale motivo; infine sorella Monica (Antonia Zegers, già apparsa in opere precedenti di Larrain) che svolge il ruolo di governante e guida ai quattro e appare in un primo momento la sola che si sia ritirata volontariamente per assistere dei confratelli, ma che ben presto lo spettatore scopre come l’unica mente lucida e spietata del mantenimento dello status quo, arrivando a ricattare lo stesso Garcia per i suoi contatti ad altro livello. Garcia scopre che Monica è lì perché è stata accusata di violenza contro dei bambini che “importava” dall’Africa per consegnare alle famiglie abbienti e persino per allevarne una lei con un’educazione violenta. Garcia l’accusa come gli altri e la sua missione è chiudere quella casa e portare tutti davanti alla giustizia degli uomini. Ma lo scandalo per la “nuova” chiesa sarebbe stato troppo per le alte conoscenze di Monica. Larrain inizia attraverso il dialogo tra i due a far capire come la chiesa è una sola da duemila anni, e che i componenti della casa non ci stanno a essere trasformati in capri espiatori. Garcia si accorge che la casa, che doveva essere un luogo di penitenza, è nella realtà un grumo di male e di peccato senza redenzione.

La Nuova Chiesa Vs. la Vecchia Chiesa: messa in scena dei peccati capitali

Ma la sua “nuova chiesa” non riesce a dividere le tenebre dalla luce e alla fine per salvarla scende a patti con Monica.

Non c’è redenzione sembra dire Larrain per una chiesa che è strettamente legata con la dittatura militare e con le tenebre che avvolgono (hanno avvolto) il paese. Bisogna conviverci. C’è un tema biblico profondo con il gruppo di preti che rappresentano nei loro atti quotidiani i sette peccati capitali.

Abbiamo la Superbia con la convinzione della propria superiorità da parte di tutti (anche di Garcia nella sua altezza di spirito integerrimo che alla fine dovrà subire il potere di Monica): i loro non sono peccati ma semplicemente azioni che hanno fatto del bene, non a tutti certo, in una situazione difficile, ma attraverso vari strumenti la loro superbia si attua o attraverso il bene dei pochi o attraverso l’avvicinamento a Dio con il sesso. L’Avarizia, nell’accezione latina, porta al bisogno di ottenere sempre di più e l’allevamento del levriero e l’accumulo del denaro vinto per le gare è emblematico. La Lussuria dei preti pedofili, e di Sandokan, vittima e carnefice egli stesso, un angelo nero che volteggia nei pressi della casa a ricordare i peccati dei preti e della chiesa. Il quarto peccato, l’Invidia si esprime nella tristezza per il bene altrui, per il bene della “nuova chiesa” per la salvaguardia del proprio benessere in un’oasi di pace e di autoassoluzione dei propri reati (prima che dei peccati). La Gola è espressa dalle cene sempre ricche dove non manca mai da bere portando anche padre Ortega a scoppi d’Ira, un’Ira che è repressa in Monica e si fa vedere bene nei confronti serrati con Garcia. Infine, l’Accidia generale ma soprattutto rappresentata da padre Ramirez che dietro la sua mancanza di memoria si trascina quotidianamente senza opporre nessuna resistenza, indifferente al mondo esterno.

La parte finale di Il Club è emblematica. Alla fine Monica organizza un piano con l’accordo di tutti: uccide insieme ai fratelli il levriero e i cani dei paesani per scaricare la colpa su Sandokan. Sandokan sarà picchiato dalla gente del paese e poi accolto all’interno della piccola comunità di peccatori. Come a dire che le vittime, trasformatisi in carnefici, restano sempre vittime e per tacere lo scandalo vengono assorbiti dalla chiesa stessa. E Garcia non può che scendere a patti con la “vecchia chiesa” per portare avanti la “nuova chiesa”, ma il dubbio delle divisioni della luce dalle tenebre non è risolto, anzi ci viene rappresentato come un tema attuale e senza risposta in una lotta continua fatta di compromessi.

La forma estetica che disegna il contenuto etico

Il tema religioso impregna Il Club di Pablo Larrain, ma è anche un j’accuse contro un clero che si è fatto complice di una dittatura crudele con cui non vuole fare i conti. E se la Lussuria e l’Ira sono i peccati più frequentati da questo gruppo di personaggi, il film è un’opera sulla Superbia, il peccato più grave per la chiesa, superbia per la propria intoccabilità, superbia per la mancanza di verità, come atto di volontaria giustificazione di un passato con cui i conti non si fanno perché quello che è successo, è tutto sommato giusto.

Larrain per portare avanti questo nucleo tematico sceglie uno stile asciutto, con una fotografia che predilige le ombre, i chiaroscuri, la luce che taglia in orizzontale e in verticale senza mai illuminare completamente la scena. L’estetica della forma porta avanti la forza del contenuto: c’è una programmatica mancanza di divisione tra luce e tenebre, dove anzi si legano, tracimano una nell’altra nelle immagini che scorrono sullo schermo. La tensione quindi non è data solo dalla diegesi e dal suo sviluppo, ma soprattutto dalla messa in quadro e dalla fotografia che ricorda la pittura di Goya e del suo periodo più scuro oppure quella ieratica di El Greco o ancora le tenebre caravaggesche degli interni illuminati da una fioca luce divina.

Il giovane regista cileno crea ancora una volta un’opera dura, completa, differente dalle precedenti, con grande maestria della messa in scena, in una découpage classica della messa in serie, dove la fotografia diventa il risultato di un affresco dipinto con la macchina da presa con estrema eleganza, tagliente come un bisturi, che lascia il segno in profondità e aperte delle ferite che continuano a fare male anche dopo la visione di questo ennesimo capolavoro di Pablo Larrain.

Antonio Pettierre

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