La trasparenza e la compiutezza dei simboli di un reale evasivo e interlocutorio
Gomorra – La serie (prima stagione, 2014) ci pare una narrazione audiovisiva che lascia uno spazio assai rarefatto al senso perturbante, e tutto contemporaneo, di agonia e di disconoscimento “simbolici” del reale.
Sembra viceversa un prodotto che intende ricucire un campo narrativo e affabulatorio legato alle urgenze politico-civili di un sociale allarmante, ricorrendo alla compiutezza icastica delle risorse espressive del cinema di genere (e al noir), così come aveva fatto Paolo Virzì con la riconoscibilità degli atrofizzati cliché, identitari ed eroicomici, della sua commedia dell’Italia berlusconiana, attinti da una tradizione della commedia all’italiana oramai scollegata da un’autentica fenomenologia antropologica del Paese reale.
Il problema è che, allo stato attuale della nostra vita culturale, l’operazione guidata da Stefano Sollima, per quanto valida sul piano formale, pare restituire poco o nulla dell’angoscia sconcertante e dilagante del reale, rimuovendo la portata dell’attuale deriva collettiva e intellettuale del “senso” da attribuire agli scenari storico-sociali del Paese e il fallimento di buona parte della nostra cultura espressiva nell’interpretazione libera, creativa e concettuale dello stesso senso socio-antropologico in riferimento ai contesti più difficili, emarginati e incandescenti, poiché è una serie che preferisce simboli espliciti, trasparenti e compiuti (quando non epici) di approccio al sociale e alla realtà.
Viviamo nell’epoca dell’omologazione e, al contempo, dell’illusione dell’accessibilità agevole e diretta di strumenti cognitivi per la democrazia proprie dei nuovi populismi del Web, dai tweet autoreferenziali della nostra classe politica all’approccio delle nuove generazioni alla vita politico-civile spesso mediato da condivisioni fanatiche e impotenti di contenuti nell’utenza dei social network.
Questa serie icastica nelle forme e nelle maschere attoriali, nera e pessimistica nei toni, drammatizzata ad hoc per un pubblico giovanile e sensibile ai modelli di una cultura espressiva molto spesso d’importazione, ci pare figlia diretta dei nostri tempi.
Francesco Di Benedetto