Animal Kingdom è un film australiano del 2010 scritto e diretto da David Michôd. Interpretato da James Frecheville, Ben Mendelsohn, Joel Edgerton, Guy Pearce, Luke Ford, Sullivan Stapleton e Jacki Weaver. La sceneggiatura di Michôd è stata ispirata dalla famiglia Pettingill di Melbourne. Nel 1988 Trevor Pettingill, accusato dell’omicidio di due agenti di polizia di Victoria, è stato assolto grazie alle testimonianze di un cugino e all’inconsistenza dell’impianto accusatorio. La trama è basata sulle vicende della sparatoria realmente avvenuta nel 1988 a Walsh Street, nel quartiere South Yarra di Melbourne. Il film ha ricevuto numerosi premi e nomination e la Weaver ha avuto, per la parte, una nomination agli Oscar come miglior attrice non protagonista.
L’esordiente David Michod sorprende non poco con un film originale, capace di rielaborare nella forma un genere cinematografico fin troppo usurato, quello del gangster movie, riposizionando le tipiche prospettive d’osservazione e ricalibrando, ridimensionandola, la statura dei personaggi che normalmente gravitano all’interno delle storie criminali. Finalmente li vediamo per quello che sono: assolutamente non affascinanti, rivoltanti, esecrabili. Il carisma che il grande delinquente, infrangendo le regole, ha sempre sotterraneamente esercitato presso il popolo svanisce nella miseria delle sue azioni.
Animal Kingdom traspone in terra d’Australia una storia malavitosa incentrata su una famiglia che convive usualmente con il delitto ma, invece del classico tribalismo alla Coppola, Michod propone una serie di relazioni in cui a fare da perno è la figura femminile della non più giovane madre, un personaggio davvero ben elaborato, affettuoso (fino a sfiorare l’incesto) e crudele al tempo stesso.
È questo il regno animale all’interno del quale viene scaraventato il giovane Joshua ‘J’ Cody (James Frecheville), che dovrà scegliere da che parte stare.
La regia è abile nel ridurre drasticamente l’elemento spettacolare, innescando una dilatazione dei tempi narrativi che, invece di accompagnare in maniera didascalica lo sviluppo della storia, trattiene lo spettatore (prendendolo quasi in ostaggio) in uno stato di sospensione, in cui l’emotività dei personaggi è tenacemente congelata. Ed è proprio a ridosso del vuoto di questa sospensione che emerge tutta la miseria umana del mondo criminale. Niente musiche ridondanti, pochissimi spari, macchina da presa pressoché immobile: un minimalismo non furbo, originale, che davvero dà una scossa stilistica ad un genere da tempo sclerotizzato.