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Mutilazioni Sociali

Toponimia di Jonathan Perel

Jonathan Perel con Toponimia realizza un’opera concettuale, un manifesto metafisico, di grande forza per la sua iteratività visiva della messa in quadro. In un circuito scopico che porta lo spettatore a essere ipnotizzato dalla geografia dei luoghi e lanciato nel passato prossimo attraverso la macchina del tempo chiamata Cinema

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Narrazione e topos

Come raccontare un pezzo della propria storia recente? Come rappresentare un periodo storico di un paese come l’Argentina che ha vissuto una delle più feroci dittature del secolo scorso? Il giovane regista Jonathan (Jony) Perel mette in scena una porzione di territorio scegliendo il genere del documentario. Prende spunto dalla costruzione coatta di quattro villaggi (pueblos) tra il 1976 e il 1977 nella provincia di Tucumàn per raggruppare le popolazioni sparse della montuosa provincia e per impedire che essi si congiungessero con l’ERP (Esercito Rivoluzionario del Popolo).

Toponimia diventa così uno studio spazio-temporale, rappresentazione di una dittatura (ma per estensione di qualsiasi potere assoluto) che arriva a (ri)costruire la geografia del proprio paese per rendere completo il controllo sulle persone. Così i quattro pueblos diventano uno spazio fisico e mentale “come contenitore della geografia enumerativa e classificatoria, nel momento in cui viene pensato come lo spazio oggettivo naturale delle cose che rappresenta, diventa inconsapevole supporto di un altro modo di intendere lo spazio (…) mitico-ideologico, (…) una visione del mondo elementare e popolare” (1).

Perel divide il film in quattro capitoli e un epilogo (più un prologo non dichiarato dove sono messe in serie foto e documenti originali dell’epoca) divisi con titoli bianchi su cartelli neri: ognuno di essi mostra uno dei quattro villaggi ai giorni nostri, dedicati a militari caduti durante i combattimenti con i rivoluzionari – tenente Berdina, capitano Caceres, sergente Moya, soldato Maldonado – in una gerarchia equamente rappresentata in modo totalizzante di una visione ideologico-concentrazionaria tipica delle dittature.

Il tempo e lo spazio concentrazionario

I villaggi sono tutti costruiti in modo uguale: strade geometriche fatte di linee rette, con una strada principale che inizia con un portale con due colonne ai lati (e la sensazione è di entrare in un campo di concentramento all’aperto); campi di calcio e centri sportivi, scuole, caserma, chiesa, centri comunali e rurali, con la torre di guardia che svetta in ogni villaggio come un totem oscuro del controllo costante, di un occhio sempre puntato di un Grande Fratello di orwelliana memoria. La scelta di Perel è quella di utilizzare la camera fissa con inquadrature che sono dei long take in campo lungo sui paesaggi dei villaggi e dettagli delle statue o di elementi architettonici che richiamano concetti ideologici imposti e uguali per tutti, senza possibilità di distinzione: immagini alla maternità, agli “eroi” di guerra, ai “caduti”, alla mascolinità, a muri dove campeggiano parole come “libertà”, “pace”, “comunità”, “Dio”, “Patria” ecc… Parole d’ordine che diventano dei mantra perdenti il loro significato originario per mutarsi in vangelo blasfemo di indottrinamento mentale proveniente dall’alto di una ferrea ideologia borghese-militaristica-religiosa, il cui scopo ultimo diventa il controllo in un flusso di pensiero unico, racchiuso in una spazio deterministico e in un tempo bloccato in un presente, dove il concetto di panopticon viene esteso a un’intera popolazione.

Il tempo e lo spazio (2) diventano così una rappresentazione vettoriale e prospettica delle attività degli abitanti dei villaggi. Navicelle terrestri spazio-temporali che arrivano fino a noi, “non solo uno spazio pubblico e quotidiano (…) ma uno spazio abitato al presente” (3). Certo è che Perel però sceglie di rappresentare il vuoto attuale di questi villaggi con una colonna sonora composta da rumori di fondo, voci di bambini che giocano, rombo di auto, camion, moto, cinguettio di uccelli, il frinire di cicale, musica di feste. Una colonna sonora extradiegetica come a mostrare uno scarto tra il passato e il presente o, meglio, la sua convivenza: dove il sonoro – fuori quadro – diventa il presente, mentre lo spazio geografico – in quadro – rappresenta la memoria storica arrivata fino a noi. Il tutto rafforzato da una prima parte di ogni capitolo dove sono mostrate allo spettatore il dettaglio delle carte topografiche e le leggi di promulgazione dei “nuovi” villaggi della “nuova patria”, voluta dai militari e sempre dagli esponenti governativi, i burocrati e i religiosi come un sigillo impresso sulla carne del territorio.

Toponimia concettuale

Le sequenze mettono in scena il vuoto culturale e sociale del passato: la fissità dell’inquadratura è interrotta da animali che attraversano i campi o le strade (cani, cavalli, maiali, galline) oppure da bambini, donne o uomini che sono solo figurine, presenze umane indistinte e fugaci, proprio a rimarcare la (as)senza-umanità(ria) dei luoghi ripresi, in un movimento interno all’inquadratura che relativizza la semplice messa in serie dello spazio geografico.

L’epilogo porta alle estreme conseguenze questa messa in scena: con le inquadrature della “selva” la presenza della natura e la sua supremazia anarchica è totale, dove il caos naturalistico alla fine riesce a vincere sul razionalismo reazionario del controllo piccolo-borghese.

Il giovane regista argentino così con Toponimia realizza un’opera concettuale, un manifesto metafisico, di grande forza per la sua iteratività visiva della messa in quadro. In un circuito scopico che porta lo spettatore a essere ipnotizzato dalla geografia dei luoghi e lanciato nel passato prossimo attraverso la macchina del tempo chiamata Cinema.

Antonio Pettierre

[1] Giuseppe De Matteis, Le metafore della terra. La geografia umana tra mito e scienza, Feltrinelli, Milano, 1985, pag. 99

[2] Antoine Bailly – Hubert Béguin, Introduzione alla geografia umana Franco Angeli editore, Milano, 1988, pp.gg. 93-106

[3] Fernando Luis Pujato, Toponimia (Jony Perel). Geografías y corbatas, in “La furia umana”, n. 27, 2016. L’interessante (e indispensabile) saggio di Pujato compie un excursus su tutta la filmografia recente sulle dittature di ogni latitudine e tempo e approfondisce il cinema di Jony Perel, analizzando, oltre al film oggetto del presente articolo, anche le altre opere del regista argentino.

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