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Personaggi

Bud Spencer: il mito, le influenze, le risate, i fagioli, i cazzotti, il piccione. Cinquant’anni di carriera e titoli entrati nell’immaginario collettivo

Bud Spencer era “solo” l’uomo invincibile, barbuto e panzuto, grande, grosso e un po’ frescone, sempre un pochino in ritardo, come il suo personaggio richiedeva, rispetto allo sveglio e scaltro Terence, ma con una forza fumettistica, e dunque innocua, che lo caratterizzava agli occhi degli italiani, dei tedeschi, degli americani e così via discorrendo, come un bruto invincibile dal cuore d’oro

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Possiamo dirlo apertamente, senza troppa timidezza e con un’inevitabile punta di nostalgia: con Bud Spencer se ne va un personaggio.  Un vero personaggio anziché un attore, come lui stesso amava definirsi, una parola, quella dell’attore, o qualifica come meglio desiderate, che in vita mai l’aveva troppo stuzzicato. Si, perché il vecchio Bud era un guascone, amava divertirsi e far divertire, non badava troppo al suo essere un divo conosciuto in tutto il mondo e forse, se possibile, anche oltre, probabilmente se ne rendeva appena conto, sia lui che il suo compagno di scazzottate Terence Hill, tanto scanzonato sullo schermo quanto timido nella vita,  lui si, a detta dello stesso  Bud,  un vero attore, quello che aveva studiato il mestiere. Bud Spencer era “solo” l’uomo invincibile, barbuto e panzuto, grande, grosso e un po’ frescone, sempre un pochino in ritardo, come il suo personaggio richiedeva, rispetto allo sveglio e scaltro Terence, ma con una forza fumettistica, e dunque innocua, che lo caratterizzava agli occhi degli italiani, dei  tedeschi, degli americani e così via discorrendo, come un bruto invincibile dal cuore d’oro. Menava sberle, tirava cazzottoni, tramortiva i “cattivi” con il mitico piccione, quel pugno perpendicolare, dall’alto verso il basso dritto sulla testa per intenderci, mangiava fagioli, il pasto che, fin dai due Trinità, ha da sempre caratterizzato il suo personaggio, concedendosi solo qui e là alternative culinarie; in questo senso, come dimenticare la famosa mangiata di birra e salsicce nell’altrettanto indimenticabile altrimenti ci arrabbiamo! (1974)  per la regia del compianto Marcello Fondato? Impossibile, lo sappiamo. Quella gara estenuante – una birra, una salsiccia, una birra, una salsiccia –  messa su dai due per giocarsi la celeberrima Dune Buggy, contesa e vinta ex aequo da entrambi durante una gara di rally, è storia e cultura pop, commedia e fumetto, un po’ come l’intero film, bizzarro e geniale ensemble di gag riuscitissime, espressioni mimiche leggendarie, scazzottate coreoagrafate con estrema minuzia e personaggi secondari appena abbozzati eppure perfettamente caratteristici: il capo, interpretato dal corpulento e tontolone John Sharp, il dottore, impersonificato da un grande Donald Pleasence, Attila, il convinto scagnozzo del capo, interpretato dal misconosciuto Deogratias Huerta, e infine lui, Paganini, “l’infallibile” sicario a pagamento fatto venire da Chicago, interpretato dallo spagnolo Manuel de Blas.

Il film di Fondato ha davvero tantissimi momenti indimenticabili, la gara di rally, fracassona e stordente, la mangiata in birreria, culminata con lo sfacelo del locale intorno agli impassibili Ben e Kid, l’intera sequenza nel luna park, dove un Attila pieno di sè viene sbeffeggiato ed umiliato in vari modi, la prima rissa in palestra, autentico momento cult nel quale i nostri stuntman danno forse il meglio in un film della coppia, e poi ancora la bagarre con i motociclisti, Paganini che tenta, inutilmente, di farli fuori, il coro, dove Bud, con il suo “assolo”, è autentico mattatore, la scazzottata finale dove i nostri, arrabbiatissimi, mettono prima a soqquadro il posto con un’entrata motorizzata e poi menano le mani a più non posso, ed infine, soprattutto, il filo conduttore del film, quella Dune Buggy rossa con cappottina gialla, oggetto quasi sacro che dà anche il titolo al pezzo portante degli Oliver Onions, a tutt’oggi la canzone più famosa, fortunata e che, forse, meglio identifica la carriera di Bud e Terence.

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Come ormai avrete capito, questo non vuole essere un mero necrologio su un grandissimo del nostro cinema, in questi giorni di lutto ne abbiamo letti a migliaia, anzi, ora che l’onda emotiva per la sua dipartita va giustamente scemando, è forse il momento migliore per renderci conto di quanto  Bud Spencer e i suoi film abbiano solcato l’immaginario collettivo molto più di quanto pensiamo.  …altrimenti ci arrabbiamo! è indubbiamente uno di questi, per tanti, troppi motivi. Anzitutto è probabilmente uno dei loro film più curati, sia esteticamente che coreograficamente,  qui i pugni sembrano arrivare davvero a segno, gli stunt volano a destra e a manca in armoniosa allegria, i set vengono distrutti con un incedere musicale dettato dall’incessante colonna sonora dei De Angelis e anche la coppia è in uno stato di forma invidiabile. Tutto questo fare scanzonato, fumettistico, spavaldo del film ha fatto scuola e proseliti, dalla testa non ce lo leva nessuno. Guardando il film di Fondato e in esso l’atteggiamento impassibile dei due, nonostante intorno gliene accadano di ogni, la loro spontanea vena distruttiva, il sarcasmo spicciolo, emerge come tutto ciò ci conduca al capolavoro di costume, di sei anni più giovane, The Blues Brothers (1980), diretto da John Landis; un film spugna che ha in sè miriadi di influenze e culture differenti, fatte proprie direttamente e indirettamente. Il guascone Landis, dal canto suo, avrà sicuramente visto  …altrimenti ci arrabbiamo!, ne siamo convinti, perché i suoi Jake ed Elwood, interpretati rispettivamente da John Belushi e Dan Aykroyd, sembrano aver preso molto dall’atteggiamento di Ben/Bud e Kid/Terence, anche loro perennemente nei guai ma indistruttibili, invulnerabili, quasi annoiati da tutto ciò che intorno gli accade. Il registro della loro comicità è proprio quello che da sempre  Bud Spencer proclamava come punto di forza dei suoi film e ancor prima dei divi del cinema muto, quali  Buster Keaton o Charlie Chaplin. Come loro anche Jake ed Elwood fanno ridere più per quello che fanno che per quel che dicono, una comicità gestuale e catastrofica che l’opera di Landis, grazie anche ad una buona dose di mezzi e ad una riconosciuta genialità, ha saputo ingigantire e rendere ancor più epocale. Come quando i fratelli blues, a bordo della loro blues mobile, fanno irruzione nel centro commerciale distruggendo tutto il distruggibile e seminando il panico fra i clienti in fuga. Tale scena ci catapulta al finale di  …altrimenti ci arrabbiamo! e alla distruzione del locale del capo, messa in atto da Bud Spencer alla guida del suo veicolo da rally. La dinamica fra questa scena e quella in The Blues Brothers è la medesima, la simbiosi è palese, salta agli occhi e non c’è niente di male nel farlo notare, le influenze sono inevitabili, basta solo saperle adattare e renderle funzionali allo scopo. Fra il film di Fondato e quello di Landis vi sono evidenti punti di contatto: la coppia indistruttibile, la musica come elemento primario e  fondamentale, che vive quasi di vita propria  – il commento musicale durante la gara di rally potrebbe essere tranquillamente trasposto in una delle scene di inseguimenti nell’opera con Belushi e Aykroyd –  le catastrofi, la figura del killer che fallisce sempre il bersaglio, se nel primo è Paganini, nel secondo tale figura è identificabile nel personaggio di Carrie Fisher, fino ad arrivare agli antagonisti del tutto innocui, macchiette abbozzate, destinate a continue umiliazioni. Ma è tutto l’andamento a rendere i due film congeniali l’uno all’altro, indissolubilmente uniti da un gusto per l’assurdo e per il demenziale, anche i rispettivi finali sono simili nella loro diversità, terminano come iniziano, Bud e Terence continuano a contendersi l’unica Dune Buggy rimasta, mentre i due bluesman tornano in galera, loro habitat naturale.

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Sempre in tema di influenze, omaggi o rimandi, che dir si voglia, è doveroso soffermarsi sul personaggio, tanto maligno, quanto stupido, del dottore interpretato da un buffonesco Donald Pleasence. La sua palese cadenza tedesca, frutto del meraviglioso doppiaggio di Oreste Lionello, il suo controbattere ad ogni discorso con quel fermo e ripetitivo – Nein! Nein! Nein! – ed il suo essere così macchiettisticamente folle ne fanno il modello d’ispirazione più logico e autoironico per l’Adolf Hitler parodistico presente in Inglorious Basterds (2009) di Quentin Tarantino. I due caratteri si assomigliano in modo fin troppo evidente ed è l’Hitler tarantiniano ad essere la copia carbone dello psicologo folle di …altrimenti ci arrabbiamo! Una presa in giro dissacrante del leader nazista, terribilmente cattivo ma altrettanto ebete, anch’essa estrapolata dal film con protagonista il compianto Bud Spencer e Terence Hill.  Certo, il buon Tarantino non è nuovo alle citazioni e anche in  Django Unchained (2012) non si è tirato indietro, inserendo nei titoli di coda l’epocale commento musicale di Lo chiamavano Trinità (1970), ad opera di Franco Micalizzi.  Inoltre, più recentemente, roba di pochi mesi fa, anche l’ex gladiatore Russell Crowe in visita a Roma per promuovere il suo ultimo lavoro The Nice Guys (2016), ha apertamente fatto intendere ad un giornalista, che gli faceva notare la somiglianza del suo personaggio e quello interpretato da Ryan Gosling con i giovani Bud e Terence, che lui riteneva un grande complimento somigliare proprio a Bud Spencer.

 Insomma, è noto quanto il cinema di Bud, al secolo Carlo Pedersoli, sia senza confini, tutti conoscono i suoi film, storie semplici, spigliate, divertenti, facili ma non per questo poco curate, anzi forti di una costruzione delle gag per nulla banale. …altrimenti ci arrabbiamo, il film più analizzato in questo pezzo, ne è solo un esempio, poiché  tutta la prima parte della carriera di Bud è caratterizzata da film ben costruiti, comici o meno; Trinità a parte, entrambi sacri oggetti di culto e sdoganatori del fagioli western, boia dello spaghetti western, vanno citati Quattro mosche di velluto grigio (1971) di Dario Argento, dove Bud interpreta Diomede, detto “Dio”, Si può fareAmigo (1972) di Maurizio Lucidi, Torino Nera (1972) di Carlo Lizzani e poi quelli in coppia con Hill, dai primi Dio perdona… io no! (1967), I quattro dell’Ave Maria (1968), La collina degli stivali (1969) e del già maturo …più forte ragazzi! (1972) tutti diretti dal loro padrino Giuseppe Colizzi, fino ad arrivare ad Una ragione per vivere una per morire (1972), diretto da Tonino Valerii, in coppia con James Coburn, Anche gli angeli mangiano fagioli (1973), del fido E.B. Clucher e quei titoli dove la coppia era ormai ben consolidata, quali Porgi l’altra guancia (1974), di Franco Rossi e I due superpiedi quasi piatti (1977), sempre di Clucher, al secolo Enzo Barboni. In tarda età ha avuto modo di concedersi anche al cosiddetto cinema d’autore, interpretando il Capitano Andorrano in Cantando dietro i paraventi (2003), diretto da Ermanno Olmi; un incontro quello col cinema d’autore che aveva già declinato in passato, rinunciando al ruolo di Trimalcione offertogli da Federico Fellini per il suo Satyricon (1969).

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Per tornare al triste evento della sua scomparsa, avvenuta improvvisamente, nonostante i suoi 86 anni, a causa di una caduta nella sua casa di Roma, fatto che lo ha costretto all’immobilità per qualche tempo e che inevitabilmente lo ha debilitato, ci viene in mente ciò che nelle sue svariate ultime interviste ripeteva sempre, con costanza e divertimento, servendosi della sua verve tipicamente napoletana: in vita mia ho fatto tutto, ma proprio tutto, ho avuto una bella vita. Solo due cose non ho potuto fare, il fantino e il ballerino d’opera, per ovvie ragioni. Ora che ho una certa età posso dire di non avere paura della morte, anche perché dalla vita non ne esci vivo. Già appena nato sei condannato a morte, quindi ho sposato una mia filosofia, quella del futtetenne. Quando il padre eterno mi chiamerà io voglio proprio vedere che cacchio succede di là e spero che succeda davvero qualcosa perché…altrimenti mi arrabbio! Ecco e pensiamo che non vi sia modo migliore per concludere un omaggio alla carriera di questo grande personaggio.

 Manuele Bisturi Berardi

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