L’ultimo capitolo di un’Opera-Mondo cilena.
Si rimane affascinati di fronte a Neruda, ultima opera di Pablo Larrain (la sesta), che conferma uno stile coerente e personalissimo, ma allo stesso tempo riesce a rinnovarsi per messa in scena e linguaggio cinematografico, in una progressione costante del suo cinema. Il giovane regista cileno continua a raccontare la Storia del suo paese attraverso le vite di personaggi differenti, riuscendo a costruire discorsi politici strettamente legati a temi attuali, ispirandosi a eventi del passato (remoto e recente) del Cile. Compie tutto ciò con una tale profondità di sguardo che rendono universali i suoi film, al di fuori di stretti confini geografici e temporali, capitoli di una narrazione in cui ognuno di noi trova assonanze, punti di contatto e confronto, con il proprio vissuto, le vicende mondiali, i collegamenti socio-economici che potrebbero essere agevolmente adattati a qualsiasi situazione conosciuta. La forma e il contenuto sono in perfetto equilibrio: i film di Larrain sono delle parti di un puzzle complesso che fanno della sua cinematografia un’opera-mondo.
Se con la “Trilogia della Dittatura” di Pinochet – Tony Manero durante, Post Mortem al suo avvento e No – I giorni dell’arcobaleno sulla sua fine – compie un viaggio in un momento topico del Cile (e per sintesi di un intero periodo storico) e con Il Club narra del Cile contemporaneo, immerso in una grande e oscura metafora religiosa, in Neruda invece effettua un salto nel passato remoto del paese e racconta un momento della vita del poeta e politico cileno Pablo Neruda (premio Nobel per la letteratura, senatore della repubblica nel secondo dopoguerra e diplomatico), per raccontare i prodomi della dittatura a venire.
Siamo nel 1948. Neruda è senatore indipendente del partito Comunista Cileno. Alla presidenza viene eletto Gabriel González Videla, esponente del partito Radicale (a cui ha contribuito lo stesso Neruda, come molti altri, alla sua vittoria) che compie un voltafaccia subito dopo le elezioni, diventando portavoce della borghesia latifondista e conservatrice e attuando una politica persecutoria nei confronti del partito Comunista, arrestando in massa i simpatizzanti e gli iscritti e deportandoli in campi di concentramento sperduti in mezzo al deserto. Videla promulga un atto per la rimozione dalle cariche pubbliche di tutti i rappresentanti dei comunisti, costringendoli alla clandestinità, e ordina l’arresto dello stesso Neruda che si dà alla macchia e a una fuga lunga tredici mesi, fino a raggiungere l’Argentina, attraverso la Cordigliera andina, e poi il successivo esilio in Francia.
La fabula si riduce, quindi, alla narrazione di questo particolare periodo della vita del poeta, ma sul percorso principale s’incrociano tutta una serie di sentieri narrativi in un fitto (sotto)bosco composto da incontri, scontri, fughe in avanti e all’indietro. Larrain poi introduce un personaggio come l’ispettore Óscar Peluchonneau che dà la caccia a Neruda, ma restando sempre un passo indietro, arrivando sempre un minuto troppo tardi, o vedendo da lontano la preda e senza mai riuscire ad arrestarlo.
Tra creazione poetica e visiva, il Verbo e l’Immagine.
E qui abbiamo il secondo tema forte e metafisico di questo film: la messa in scena della creazione poetica, dove Peluchonneau non è altri che un personaggio creato dall’immaginazione di Neruda, o meglio esiste in quanto esiste Neruda, (soprav)vive per l’affermazione della narrazione in un discorso metadiegetico, dove creazione-creatura-creatore sono all’interno di un cortocircuito di messa in scena dell’arte, della letteratura e della poesia. La vita è l’opera dell’artista stesso, essa esiste in quanto creata, la parola del Poeta si trasforma in Verbo, in atto creativo della Realtà e di conseguenza della Storia. Larrain sembra dire che non esiste Storia senza la carne dei versi, senza la continua produzione dell’Arte che si consustanzia nella quotidianità del reale. Il verso poetico diventa gesto, evento, sopravvivente al Tempo, soppalco della Storia e delle storie degli uomini e delle donne, testimone ultimo del passato che esiste in quanto raccontato. Anche il cinema di Pablo Larrain, in quanto tale, diventa messa in scena della Poesia – durante tutto lo sviluppo diegetico assistiamo a Pablo Neruda scrivere e recitare le proprie poesie – in un contrappunto verbale delle immagini, dove pulsione creativa diventa pulsione scopica: il verso di Pablo Neruda è equiparabile all’inquadratura di Pablo Larrain, suo doppio, gemello, fratello. E il confronto poliziesco e politico tra autore e personaggio, diventa rappresentazione della creazione della Storia di un intero paese.
E del resto questa operazione è confermata da elementi decisivi come la scelta di attori feticci e personaggi: Peluchonneau è interpretato da Gael Garcia Bernal, in un legame simbiotico con René Saavedra di No – I giorni dell’arcobaleno, ribaltandone la funzione da oggetto della narrazione a soggetto attivo della rivoluzione futura raccontata dal regista; l’attore prediletto Alfredo Castro interpreta il presidente Videla, in una ennesima variante dello stesso personaggio in cui il Male si esprime, l’anomia prende forma, l’ingiustizia si autosostanzia; Luis Gnecco, che qui copre il ruolo di Neruda, nel precedente NO – i giorni dell’arcobaleno è il politico di sinistra che ingaggia Saavedra per la campagna referendaria. Infine, in una breve inquadratura vediamo il giovane capitano Pinochet, comandante di un campo di concentramento, dove sono rinchiusi i comunisti. Basta il suo sguardo per raccontare ciò che succederà nel futuro. E la sua esperienza in quel contesto circoscritto, porta a trasformare in una grande prigione l’intero Cile dopo il colpo di stato contro il governo Allende. Legami stretti che dimostrano le linee carsiche di collegamento tra un’opera e l’altra del regista, ma, soprattutto, la grande capacità di visione creativa di una realtà onnicomprensiva in un percorso storico di causa-effetto tra l’essere e il divenire della messa in scena cinematografica e la Storia di un paese intero. Il cinema di Larrain è allo stesso tempo storico, politico, artistico, poetico e infine metafisico, senza soluzione di continuità. Un continuo ri(n)corso all’immaginario collettivo, alla memoria personale e sociale, dove in ogni fine c’è un nuovo inizio. Dunque, un cinema eracliteo, dove tutti i film sono il cinema di Larrain e il suo cinema rappresenta tutta la Storia del Cinema.
La riscrittura della grammatica cinematografica tra commistioni, ibridazioni e licenze.
La capacità autoriale del giovane regista cileno si esplica anche nell’evoluzione del linguaggio cinematografico utilizzato, che modella e adatta secondo le proprie esigenze espressive.
Così, Neruda appare come un poema in immagini, come abbiamo già detto, ma non solo. La voce narrante over che si sovrappone molto spesso alla declamazione delle poesie da parte di Neruda è quella di Peluchonneau: la voce del regista stesso e alter ego di Neruda all’interno del tempo filmico, in un gioco intra ed extradiegetico sopraffino. La poesia di Neruda è declamata in parallelo con la commistione dei generi nel testo filmico: da un lato, abbiamo poesie, canti, invettive e poemi di impegno politico, storiche, erotiche e d’amore; dall’altro, si passa dal dramma storico (la narrazione del Neruda senatore, il suo impegno sociale come convinto comunista) alla commedia (il rapporto con la seconda moglie argentina, l’introduzione della prima moglie olandese in un goffo tentativo si screditarlo davanti alla nazione come bigamo, alla frequentazione dei bordelli), dal noir (la fuga e la detection di sapore cortazariano da parte del poliziotto) al western (nella bellissima sequenza finale mente a cavallo, tra la neve, attraversa le Ande).
Nella prima parte, dove il dialogo è predominante (in un film comunque dove la parola è fondamento dell’opera stessa) tra gruppi di personaggi in interni, la macchina da presa è in continuo movimento, sinuosa e circolare. L’occhio della cinepresa scivola intorno ai corpi degli attori fermi nello spazio di una messa in scena statica per una messa in quadro mobile (come tutte le sequenze all’interno del parlamento, de La Moneda).
Oppure ancora abbiamo primi piani con una messa in quadro fuori asse dei personaggi (il dialogo tra Neruda e il presidente del Senato o tra Peluchonneau e la moglie argentina) o scavalcamenti di campo voluti, stranianti, in tutto il film, in cui è protagonista il poliziotto. Una grammatica visiva che viene riscritta, come i versi della poesia di Neruda, in una simbiosi tra forma e contenuto (tra ciò che viene descritto e come è mostrato).
E anche la messa in serie si trasforma, con salti temporali, passaggi da una scena a un’altra, all’interno della stessa sequenza con i medesimi personaggi, costruzione surreale dell’immagine in verso poetico. E citiamo come esempi eclatanti la sequenza del dialogo tra il presidente del Senato e Neruda che continuano a dialogare spostandosi in diversi interni, con stacchi precisi e improvvisi nella continuità discorsiva; oppure il dialogo tra il poliziotto e la moglie di Neruda, nel suo ultimo rifugio, passando dall’interno all’esterno, dal giorno alla notte, dalla luce naturale a quella artificiale, da campo e controcampo in esterni, a un totale in interni, in un montaggio sincopato e tenuto insieme dal dialogo tra i due personaggi; e infine, le sequenze di Neruda nelle stanze dei bordelli, circondato da belle donne, dove sesso, cibo e poesia sono tutt’uno in un montaggio iperreale, in luci flou e dai colori desaturati e soffusi, dove l’illuminazione vira in ombre immerse nel nero e nell’arancione.
Insomma, con Neruda, Pablo Larrain dona allo spettatore un altro esempio di grande consapevolezza di utilizzo del mezzo cinematografico, ancora una volta del grande Cinema di un autore che non finisce (finirà) mai di stupire per originalità di stile e forza contenutistica.
Antonio Pettierre