Sinossi: Pablo Neruda si unì al Partito Comunista cileno, venne eletto senatore e si scagliò contro l’arresto dei minatori in sciopero, presa di posizione che gli costò l’arresto, divenendo, in seguito, un fuggitivo. In quello stesso periodo Neruda iniziò a scrivere Canto General, ode all’America Latina.
Recensione: Danzando in modo meravigliosamente fluido tra generi diversi, tutti perfettamente sinergici e muovendosi con estrema disinvoltura tra finzione e realtà, tra politica e arte, Pablo Larraìn compie l’ennesima impresa (la sesta per la precisione), confezionando un grandissimo film, di cui non si può far altro che godersi ogni immagine, ogni dialogo, ogni sfumatura. Ancora una volta, quello che non si fa alcuna fatica a definire, senza timore di peccare di eccesso di entusiasmo, all’età di soli 39 anni, come uno dei più grandi registi viventi all’attivo in questo momento, spaziando tra noir, western, road movie, riesce a rendere totalmente originale quello che avrebbe potuto essere un biopic, traendone una sua personalissima e intima creazione, completamente avulsa da qualsiasi possibile definizione e libera da ogni tentativo di inquadramento. Creazione nella quale inserisce tutta una serie di ingredienti che la rendono preziosa e sorprendente, a partire dagli elementi visivi, come sempre estremamente curati, tra i quali spicca la sua abituale straordinaria scelta dei colori, che avvolgono e riempiono l’opera in ogni sua evoluzione, costituendo parte integrante della sua struttura, in totale equilibrio e sintonia con tutto il resto.
Scegliendo un soggetto già di per sé estremamente carismatico e caratterizzato da una miriade di sfaccettature attraverso le quali osservarlo, Larraìn rende straordinariamente proprio il celebre poeta, suo connazionale e omonimo, Pablo Neruda, mettendone in scena un tratto di vita che affida amorevolmente al suo geniale immaginario, il che gli consente di dipingerne la figura nei suoi aspetti più contraddittori, intimi e profondi. L’idea del regista è nata dalla scoperta di un’opera di Neruda meno nota rispetto alle sue più popolari poesie d’amore, il Canto General, scritta durante la fuga e l’esilio del poeta, conseguiti alle sue prese di posizione in parlamento contro il generale Videla, le quali, data la sua celebrità e il largo seguito nel popolo cileno, lo hanno reso un personaggio scomodo per il governo, che ne ha così ordinato la cattura.
Larraìn incentra la narrazione sulla reale fuga del poeta, adattandola alla sua personale visione dell’uomo, della vicenda e del contesto storico-sociale del momento, e inserendola in una dimensione immaginaria, prodotto dell’unione tra sue prerogative caratteristiche, quali spessore umano, visceralità ed estrema sensibilità al dolore, sia esso di un uomo, di un popolo o di una nazione, cosicché questo particolare periodo della vita di Neruda assume una luce propria potentissima che le conferisce un enorme potere di coinvolgimento. Egli sceglie di rappresentare questa figura così affascinante, proponendola nell’ambito della condizione ideale per poter identificare, osservare e comprendere un uomo: la relazione. Così, ci offre il poeta in relazione con la moglie, con il suo pubblico, con i suoi avversari politici, ma soprattutto con se stesso.
A partire dalla, a tratti beffarda, a tratti incerta, rabbiosa e a tratti piena di orgoglio ferito, ma sempre efficacissima voce fuori campo, il regista crea un personaggio preziosissimo, interpretato da un grande Gabriel Garcia Bernal, il poliziotto incaricato di catturarlo Oscar Peluchonneau, che diviene fondamentale nello sviluppo dell’opera e nella rivelazione dei tratti peculiari della personalità del poeta, dandogli l’onere di costituirne ora il nemico, ora l’ammiratore, ora l’alter ego. Quest’ultima è probabilmente la più audace e incredibilmente incisiva manovra compiuta da Larraìn in questo film, che oltre a permettergli di affrontare il tema muovendosi su piani diversi e sovrapponendoli, quello politico, quello artistico, quello della competizione e del narcisismo dell’uomo, gli consente di stemperare la drammaticità della narrazione, includendo diversi spazi di ironia che si amalgamano perfettamente con momenti di forte tensione e impatto emotivo, particolarmente intensi.
Nello stesso tempo Larrain effettua una serie di operazioni, il prodotto di ognuna delle quali si staglia in perfetto equilibrio disponendosi a dipingere un unico quadro nel quale dà modo allo spettatore di osservare il poeta nella sua individualità, nei suoi limiti umani, nei suoi vizi, senza idealizzarlo, e contemporaneamente, nella sua urgenza politico-sociale e nella sua arte.
Il regista cileno utilizza una delle figure più carismatiche del suo paese per denunciare ancora una volta la persecuzione nei confronti di un’intera categoria di individui che, soltanto in virtù del loro credo politico, sono stati discriminati, perseguitati, imprigionati e uccisi; e per sottolineare quanto sia stata determinante l’influenza degli Stati Uniti e del loro potere, nella storia del Cile e dei suoi abitanti.
In quest’opera come nelle sue precedenti, e nelle più recenti firmate dagli autori suoi connazionali, primo tra tutti Patricio Guzman, è impressionante riconoscere quanto l’enormità delle sofferenze e delle ingiustizie subite e vissute da questo popolo abbiano determinato un senso di identità e un orgoglio profondissimi e incredibilmente forti. Impossibile per chi li ha visti entrambi, non notare la forte somiglianza nelle immagini che ritraggono i campi di concentramento nei quali sono stati rinchiusi i comunisti cileni, con quelle mostrate in Nostalgia de la Luz, che riprendono gli stessi campi, immagini che Larraìn rafforza, intensificandone il potere evocativo, sottolineando la loro gestione da parte di Augusto Pinochet.
Larraìn si è avvalso del solito cast impeccabile, costituito da interpreti fedelissimi con i quali ha sempre dichiarato di avere una particolare intesa, Alfredo Castro nei panni di un detestabile e come sempre ineccepibile presidente Videla, il già citato Gael Garcia Bernal, diversi degli interpreti già apprezzati nelle opere precedenti e un bravissimo Luis Gnecco, che nonostante venga da una carriera come comico, è perfettamente a suo agio nel ruolo di un Neruda incredibilmente somigliante ed espressivo.
Quindi, ancora per Larraìn, una straordinaria dimostrazione di talento, di spessore artistico, di potenza autoriale e di grande energia comunicativa, che lo confermano tra le più valide e autorevoli firme del cinema contemporaneo, a dispetto della sua giovane età.
Roberta Girau